Scuole a confronto

19 Giugno 2020
di Sara e Cecilia

Oggi offriamo un piccolo viaggio, dal Mar Baltico alla costa orientale del Mar Mediterraneo, all’interno di due scuole lontane tra loro, raccontate da ex studenti.

Tra i modelli scolastici, quello svedese è considerato da molti uno dei migliori. La scuola è alla base del progresso di un Paese, ed è per questo che in Svezia vi è una particolare attenzione nell’agevolare il percorso di studi per bambini e famiglie.

Proprio per questo le scuole svedesi cercano di garantire lo stesso grado di istruzione, annullando differenze di tipo economico.


Infatti, a tutti gli studenti vengono garantiti servizi gratuiti tra cui la mensa, anche per chi finisce alle 13, trasporti pubblici gratuiti dal lunedì al venerdì, durante il periodo scolastico, ingressi ai musei e i materiali di cui abbisognano, quindi quaderni, matite e penne. Gli studenti vengono inoltre dotati di tablet o computer in comodato d’uso, su cui vengono caricati i programmi di studio e che possono usare durante il tempo libero, la famiglia può anche scegliere di optare per strumenti informatici più performanti, versando una piccola quota alla scuola come garanzia.

Dalla prima media i ragazzi possono rapportarsi con uno psicologo e un sessuologo messi a disposizione dalla scuola, che hanno il compito di seguirli e supportarli in un momento così delicato quale l’adolescenza.

Il percorso scolastico pubblico è suddiviso in 13 anni:

  • 1 anno di scuola prescolare;
  • 9 anni di scuola dell’obbligo;
  • 3 anni di scuola superiore.

L’obbligo scolastico inizia a 7 anni, a 5-6 anni è però possibile frequentare un prescuola che prepara il bambino agli anni successivi, in modo che non si ritrovi spiazzato dal passaggio brusco tra giornate passate a giocare (scuola materna) e il vero e proprio inizio del percorso di studi.

Le elementari durano 6 anni, mentre medie e liceo 3 anni, l’obbligo scolastico termina al compimento del 16° anno.

Le lezioni durano 45 minuti perché secondo vari studi psicologici e pedagogici, dopo questo periodo si ha un calo della soglia dell’attenzione e in linea con gli stessi studi viene fatta una pausa di un quarto d’ora in cui gli studenti sono obbligati ad uscire dall’aula per godere dell’aria aperta. Per la pausa pranzo e a metà mattina si ha a disposizione una pausa più lunga di 30-35 minuti.

Per i bambini delle elementari dopo l’orario scolastico sono disponibili dei post-scuola fino alle 18, dove passano il tempo a giocando o imparando a suonare uno strumento. I compiti a casa infatti, sono pochissimi perché dopo 5 ore di scuola (8-13) il bambino è stanco e ha il diritto di riposarsi. Quotidianamente vengono affrontate tre materie, per non creare troppa confusione nell’apprendimento. L’abbandono scolastico si aggira intorno al 2% e la media di studenti universitari che portano a termine il corso di laurea intrapreso è altissima quasi 98%.

Il tempo a scuola è sfruttato al massimo, chi ha difficoltà come dislessia, discalculia, può impiegare il pomeriggio per fare esercizi di recupero senza rischiare di rimanere indietro con altri compiti.

L’assunzione degli insegnanti è demandata ai vari comuni, che possono assumere e/o licenziare in caso di necessità, il loro stipendio è fissato da un contratto collettivo nazionale, ma può variare da comune a comune. Durante il periodo di “vacanza estiva” gli insegnanti hanno l’obbligo di seguire corsi di formazione e aggiornamento. Anche a loro vengono forniti in comodato d’uso gratuito pc/tablet da utilizzare esclusivamente per l’attività scolastica.

Abbiamo avuto l’occasione di poterci far raccontare anche come sia il sistema scolastico in una città grande della Palestina come Hebron.

Il percorso scolastico pubblico è suddiviso in 12 anni:

  •  6 anni di scuola elementare;
  • 4 anni di scuola media;
  • 2 anni di scuola superiore.

In questo caso le materne esistono solo sotto forma di scuole private a pagamento. Per le elementari, medie e superiori statali vi è invece una sola quota di corrispettivi 10 euro ed i libri vengono disposti gratuitamente ai bambini con il patto di restituirli a fine dell’anno.

Nelle grandi città le classi sono formate da 30/40 allievi e gli insegnanti si dividono in due turni, la mattina ed il pomeriggio, al fine di rispondere alla grande domanda di alunni e ovviare leggermente al problema degli spazzi ristretti delle aule. Non ci sono in oltre classi miste fino alle medie, tranne in alcune scuole private, come quelle cattoliche per esempio, in cui non vi è una divisione di genere per nessun degli anni scolastici.

Il metodo didattico si basa prettamente sulla memoria e la teoria, di fatto è raro trovare scuole in cui ci siano materie verso l’arte, come per esempio musica. In più solo in poche strutture c’è la possibilità di scegliere un’altra seconda lingua oltre all’inglese, com’è invece di consueto nelle medie. Oggigiorno però si è diffuso l’insegnamento di tale lingua già dall’elementari.

Per questioni culturali è molto sentito l’insegnamento della religione. Infatti, escluso per chi è cristiano ed in certe scuole, vi è l’obbligo di insegnare e partecipare alla lezione per tutti gli allievi.

Rispetto all’Italia, c’è una tipologia più ristretta di indirizzi scolastici delle scuole superiori. Si può scegliere tra: il liceo, scientifico o classico, oppure il tecnico-professionale, il quale spazia dal corso informatico a quello di falegnameria. Esiste però un’altra curiosa realtà relativa alle scuole private, ossia ci sono dei gemellaggi con scuole di altri paesi, le quali offrono l’esperienza di poter fare uno scambio tra alunni di distinte realtà. Ciò permette a questi ragazzi di poter vivere e osservare per un breve periodo diverse prospettive sociali e culturali. In più vi è un ulteriore particolarità che riguarda le scuole gestite dall’ UNRWA, ossia l’“Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente”, la quale si dedica gratuitamente al soccorso, allo sviluppo, all’ istruzione, all’ assistenza sanitaria, ai servizi sociali e ad aiuti di emergenza per i rifugiati delle zone di guerra.

In Palestina non c’è l’obbligo scolastico, infatti è comune che ragazzi tra i 12 e 15 anni decidano di mollare gli studi per lavorare. Solitamente le ragioni consistono nella necessità di dover aiutare in casa economicamente o nell’attività di famiglia.

Infine vi sono le università, le quali sono solo miste, sebbene la presenza femminile sia una minoranza. Queste seguono un modello statunitense per cui vi sono 2 anni, alla fine dei quali si prende un diploma. Successivamente è possibile scegliere tra due alternative:

  • 4 anni di università, alla conclusione dei quali viene rilasciato il “bachelor’s degree”, che andrebbe a corrispondere all’equivalente della triennale in Italia;
  • Fare un corso di laure della durata di 5 anni.

Dopodichè, se si vuole continuare gli studi, ci sono 2 anni di magistrale ed infine 2 o 3 anni (dipende dal corso che si va a scegliere) di dottorato.

Il sistema degli esami è molto più complesso rispetto a quello italiano, in quanto in tutti i corsi vi è l’obbligo di frequenza. Alla fine di questi vi è un solo appello e nel caso non si riesca a superarlo, si è costretti a rifrequentare il corso dall’inizio e ritentare l’anno successivo. Questo crea non poche difficoltà ai lavoratori, per i quali vi sono poche agevolazioni.

Infine vi sono anche le borse di studio, le quali tengono conto principalmente della situazione familiare, più che della media dei voti, però purtroppo c’è ne sono poche.

Questa esperienza che ci è stata raccontata si basa su 12 anni fa, perciò oggigiorno può essere effettivamente cambiato qualcosa, e si tratta di una città in cui c’è relativo benessere rispetto alle zone colpite dalla guerra, dove purtroppo la situazione è ancor più differente.

i miei sei mesi diversi

12 Giugno 2020
di Federica

Mi chiamo Federica, sono un’infermiera pediatrica e lavoro dal 1986 nell’ospedale di Udine.

Nel 2006 dopo una lunga riflessione relativa al mio lavoro e a ciò che mi sarebbe piaciuto fare, ho deciso di  approfondire le mie competenze lavorative all’estero, desiderosa di vivere nuove esperienze che potessero arricchirmi professionalmente ed umanamente. La destinazione affidatami dall’ONG a cui mi rivolsi fu l’Afghanistan.

Per me rimaneva assolutamente indifferente la meta, qualsiasi luogo avrebbe arricchito il mio bagaglio di esperienza e di vita.

Nell’agosto del 2006 parto per la Valle del Panshjr situata a nord dell’Afghanistan, in una zona montuosa con altitudini di circa 2000 metri immersa in un clima continentale, con inverni rigidi e nevosi ed estate caldi. Ci rimarrò per sei mesi. In quel periodo il Paese viveva una calma apparente: i talebani erano momentaneamente bloccati, diminuivano gli attentati e nella capitale la vita trascorreva normalmente. Nel territorio erano ancora presenti alcune truppe americane, italiane ed inglesi. Lo staff con cui operavo si spostava sotto scorta non armata. In quel periodo si provvedeva allo sminamento di alcune parti della zona, tuttavia ogni giorno in ospedale giungevano feriti colpiti dallo scoppio delle mine antiuomo. Le vittime erano per lo più donne e bambini perché occupandosi del bestiame e quindi del pascolo si addentravano in aree ancora pericolose.

Io mi occupavo dei bambini ricoverati nella zona destinata al reparto pediatrico: offrivo assistenza ai neonati in sala parto, aiutavo le puerpere per l’allattamento al seno, ho collaborato ad alcuni interventi chirurgici sui bambini o in pronto soccorso generale in caso di necessità. Lo staff ospedaliero era composto da personale locale, coordinato da quello internazionale, che svolgeva corsi di aggiornamento teorici e della tecnica medico- infermieristica.

Per il gruppo internazionale non esisteva l’orario di lavoro, la nostra reperibilità era di 24 ore al giorno. Alcune giornate non si ritornava a casa prima di sera, arrivavano sempre delle chiamate notturne. Alle volte  potevamo concederci qualche ora di pausa che trascorrevamo assieme chiacchierando e giocando, ascoltando musica e condividendo attimi di vita quotidiana. Confrontando i mesi di permanenza presso l’ospedale del villaggio e comparandoli con gli anni di lavoro svolti nella mia carriera da infermiera, posso affermare che le patologie ostetriche, riscontrate in quel periodo, sono state oramai superate dalla medicina occidentale. Quest’ultima si affida a costanti controlli e a tecnologie all’avanguardia che accompagnano la gravidanza delle nostre madri.

Le patologie pediatriche più frequenti erano: la malaria (endemica in Afghanistan), la malnutrizione e denutrizione dovuta alla povertà della popolazione, le malattie respiratorie e gastrointestinali spesso con esito fatale, causate dalle condizioni igienico sanitarie scadenti.

Spesso l’operatività e la necessità di alcuni interventi d’urgenza, che riguardavano soprattutto le donne, andava a scontrarsi con la cultura islamica. Uno degli episodi che ricordo, fu quando un marito negava il permesso di un taglio cesareo urgente della moglie, in quanto il chirurgo operante era uomo.

Fu molto difficile persuaderlo. Solo di fronte alla morte certa della consorte e del figlio, riuscimmo ad ottenere il consenso all’intervento.

Lo staff internazionale alloggiava in una casa a circa un chilometro dall’ospedale. Ogni giorno e ogni notte venivamo accompagnati dalle nostre guardie locali che non erano armate, ma che in caso di pericolo avrebbero potuto scontrarsi con eventuali malintenzionati. Ognuno aveva una camera da letto e condividevamo gli altri spazi comuni. Cenavamo sempre assieme aspettando che anche gli ultimi colleghi rientrassero dal lavoro.

Cucinare e stare a tavola era l’attività che ci univa, spesso capitava di incontrarci per la cena insieme ai medici afghani che apprezzavano i nostri cibi. Organizzammo delle feste di compleanno, alla quale parteciparono anche gli operatori locali e al termine del ramadan furono loro ad invitarci nella mensa dell’ospedale per festeggiare assieme. A Natale ci fecero trovare degli addobbi in reparto costruiti con carta igienica, guanti gonfiati a palloncino e petali di fiori sui tavoli.

A distanza di anni ciò che rimane vivido in me è il ricordo di un’umanità pura che, seppur provata e martoriata nell’intimo dalla guerra, mantiene la sua dignità e il suo coraggio.

Mi è difficile non pensare a tutti quei bambini che ho assistito e non immaginare per loro un futuro diverso. Rifletto sull’idea di come avrebbe potuto essere la loro vita se solo fossero nati in un posto e in un tempo diverso.


La fortuna è una questione di geografia.

Stranieri in classe: collegare le differenze

05.06.2020
di Giulietta Montagni

Per poter avvicinarsi almeno in parte al significato di straniero bisogna essere stati una volta stranieri, essersi sentiti stranieri ed essere stati considerati tali.

Nel mio piccolo, quando dalla Toscana, mai lasciata e sempre tenuta a modello unico, arrivai in Friuli Venezia Giulia questo mi capitò.
Da una Toscana in cui era frequente e ben tollerato sentir parlare di generici “marocchini” per indicare i connazionali provenienti dal sud mi trovai qua con la mente ogni giorno affollata di domande che mettevano in discussione tutto il modo di vivere che mi caratterizzava.

Avevo da districarmi tra il cercare riferimenti spaziali in mezzo ad architetture differenti dalle mie, note, e i riferimenti storici mai anche in seguito né conosciuti né percepiti fino in fondo.

Tutto questo preambolo per riflettere su quanto tutto ciò mi sia poi servito e mi serva tuttora nel mio amatissimo lavoro.

Sono una maestra di scuola primaria di frontiera che, come tutte le frontiere, separa sì, ma anche collega popoli e differenze.

Lavoro – per scelta – in un plesso a tempo pieno in cui c’è l’opportunità di frequentare bambini di varie provenienze. So che se fossi rimasta in Toscana non avrei sicuramente saputo  riconoscere negli occhi dei bambini stranieri l’accadente.
Un’altra opportunità che mi capitò e seppi cogliere (perché questo è un importante  binomio che serve nell’apprendimento del vivere) quando ero alle primissime armi nel mondo della scuola e il “ruolo” era ancora un miraggio, fu l’imbattermi in uno dei pochissimi corsi di aggiornamento ai quali ho partecipato: il tema riguardava l’importanza fondamentale della relazione nella scuola.

L’importanza della relazione triangolare insegnante-bambino-genitore-insegnante.

Lo pagai quel corso perché non ero un’insegnante a tempo indeterminato.

Un investimento.

E questo applico sempre anche con i bambini stranieri, con le famiglie straniere condendo il tutto con l’altro indispensabile ingrediente: il rispetto.

Ma il rispetto quello vero, quello che ottieni dentro di te cercando giorno per giorno di liberarti il più possibile dai pregiudizi, cercando di educarti ogni giorno a non usare mai più quelle frasi fatte, quegli stereotipi, quelle banalità sui burqa e sulla cultura “diversa” neanche con le colleghe; anzi a lasciarle cadere se formulate da altri.

Ecco, veri rispettosi si può diventare dopo non esserlo stati. Con la presa di coscienza del processo di cui tu stessa sei artefice.

Tutto ciò mi ha permesso piano piano di andare davvero verso.

Di tenere sempre saldissimo il timone sull’obiettivo. Un obiettivo. L’unico. Il solo: il bene del bambino. Di ogni bambino. E così diventi anche una mediatrice, e così impari a non impaurirti se un bambino ti dice che sei una stronza. A chiedere scusa. E così impari ad attendere tempi, capacità. Fiducia.

Già fiducia. La do, se voglio averla. Ma bisogna darla davvero. Bisogna liberarsi di quei trucchetti di bassa lega che non sono degni di essere usati da dei formatori.

E ora si parte.

Davanti a me un bambino straniero e non ho che il sorriso e col tempo forse, se me lo permetterà, le carezze: due grandi mezzi. Io fra le sue esigenze e quelle della scuola, ambedue da tenere di conto.
Tutti però si aspettano “l’integrazione” del bambino cioè quella cosa che lo induce a diventare simile a noi senza avere gli stessi privilegi. Complici inconsapevoli le “mediatrici culturali” che sono ridotte a semplici traduttrici di norme e regole?

Oppure questa integrazione potrebbe essere un processo di osmosi tale per cui anch’io, anche noi ci lasciamo contaminare, apprendiamo delle cose? Questo, inevitabilmente avverrà volenti o nolenti; noi tutti nella società saremo contaminatori e contaminanti come è sempre successo.

Sarebbe però opportuno che già la scuola riuscisse a travalicare certe tecniche asettiche, che non vanno certo eliminate bensì usate.

Chiedendoci sempre però se tali tecniche aiutino a “conoscere” o a “costruire” l’altro.

E poi la famiglia. Il triangolo deve funzionare. DEVO assolutamente mettermi in contatto senza impaurirli dapprima, senza lasciare che siano loro a condurre il gioco subito dopo. Talvolta per certe famiglie (comprese quelle italiane) la scuola finisce con la campanella.
C’è da lavorare…insieme. Darò tutta la mia possibile disponibilità perché mi diano la loro. Con tenacia, non con testardaggine. Se riceverò dei rifiuti saprò aspettare e tenterò un’altra via. Ricercherò il coinvolgimento in attività extrascolastiche il sabato, la domenica. Mai mi trincererò dietro un “…se non interessa a loro”.

Questi bambini diventeranno italiani oltre che….”esi”; sono già italiani, vogliono esserlo, vogliono essere anche italiani.

Per far sì che ciò avvenga abbiamo da imparare l’italiano insieme: un compito importante che sarà motivo di studio e di revisione anche da parte mia.

Lo vedo l’accadente negli occhi che guizzano quando cominciamo a capire, li vedo i gesti più sicuri di chi comincia a formulare frasi.

Ho nelle orecchie gli applausi spontanei della classe che si meraviglia nel sentir leggere il compagno per la prima volta. L’abbiamo aspettato tutti insieme.

Malgrado la scarsità di risorse di tutti i tipi, malgrado classi che scoppiano di alunni: impareremo.


Superare i disturbi alimentari: imparare a piacersi giorno dopo giorno

29.05.2020
un’intervista di Cecilia Zecchini a Jessica



Si sente sempre più spesso parlare di disturbi dell’alimentazione, abbiamo voluto dare voce a Jessica, che ha vissuto questa situazione in prima persona. Soffre di binge eating da 8 anni, e questo periodo così particolare si è avvicinata a una soluzione.

I: Come si chiama e in cosa consiste il disturbo di cui eri affetta?

J: il disturbo si chiama Binge eating oppure disturbo dell’alimentazione incontrollata. Caratterizzato da episodi di abbuffata, si mangia una quantità di cibo maggiore della solita e molto velocemente senza riuscire a fermarsi. Mi capitava di mangiare senza freni, di essere così piena da non riuscire nemmeno a muovermi. Ho provato a fare un sacco di “diete fai da te” che si sono rivelate fallimentari, al raggiungimento del peso forma, tornavo a mangiare come prima. Andavo alla ricerca di gelati, patatine, dolci, sentivo proprio di averne bisogno per colmare un vuoto emozionale, al punto di uscire appositamente per comprare queste “schifezze”. Spesso mi capitava di abbuffarmi e per il senso di colpa continuare a mangiare.

I: Qual è stata la causa scatenante di questo problema? Sentiti libera di non rispondere a questa domanda.

J: La primissima volta che mi sono affacciata a queste abbuffate è quando ho smesso di ballare (era una ballerina agonista n.d.r.), ma riuscivo a tenerle abbastanza sotto controllo. Otto anni fa ho subito uno stupro e da lì non sono più riuscita a controllarmi. Ero sempre a disagio con il mio corpo, non riuscivo a specchiarmi e non mi interessava più di me stessa. Ero arrivata al punto di mangiare cibi ancora congelati. Quando ricevevo commenti negativi cercavo di risolvere con delle diete lampo, o con alimenti sostitutivi del pasto, senza risolvere mai effettivamente il problema. Ero anche iscritta in palestra, dove andavo per un mese per poi interrompere l’allenamento e ricominciare con la mia routine di abbuffate.

Mi capitava anche di alternare momenti di abbuffate a giorni di digiuni per punirmi.

Di solito mangiavo senza controllo da sola, cercando di non essere vista da nessuno. Un giorno però mio padre mi vide mentre cercavo di mangiarmi una torta ancora congelata.

I: Cosa ti disse tuo papà?

J: Mi disse che c’era un problema, mi portò da un terapeuta che però aveva un approccio per me sbagliato, rapportava tutto al sesso e questa cosa mi metteva molto a disagio. La terapia non funzionò.
Successivamente partecipai al Servizio Civile, il gruppo era seguito da uno psicoterapeuta che ci fece parlare dei nostri problemi, funzionò e mi sentii meglio, ma finita questa esperienza il problema si ripresentò.

I: Avevi già avuto problemi con il cibo?

J: Alle elementari ero molto magra, non mi andava di mangiare, rifiutavo il cibo. Non mangiavo nulla che non fosse yogurt fatto in casa o pasta in bianco. Non so perché, nessuno sapeva spiegarselo.

I: e durante l’adolescenza?

J: Alle superiori facevo la bulla. Avevo adottato un meccanismo di difesa per cui avevo un atteggiamento molto da dura, la gente aveva paura di me, mi vestivo in stile goth. A scuola non andavo bene, ma ho avuto una bella adolescenza, avevo tanti amici, un bel fisico grazie allo sport e il moroso. Durante l’adolescenza ho sofferto di attacchi di panico, ma non avevo nessun problema con il cibo, non mi piacevo fisicamente, ma non era un problema. A 16 anni ho avuto un infortunio e ho dovuto lasciare lo sport che per me era vita. Ho mollato anche la scuola e ho iniziato ad avere episodi sporadici in cui mangiavo ad esempio scatole intere di merendine, ma li attribuivo alla noia. Vedevo i disturbi dell’alimentazione molto lontani da me.

I: Hai ancora questo problema delle abbuffate?

J: Si, ma molto raramente. Riconosco la sensazione e cerco di controllarmi. Quando non riesco, mi concedo l’abbuffata, mangiando un’intera vaschetta di gelato alla soya. Durante la quarantena ero sola e ho avuto un “click”, mi sono stufata dell’etichetta di vittima che mi ero attribuita. Sono stata costretta a occuparmi di più di me stessa. Ho iniziato a comprare cibi sani, bere tisane e a fare sport per non annoiarmi.
La mattina mi sveglio presto, faccio yoga, mi sistemo e riordino la casa, vado a lavoro e nel pomeriggio faccio un allenamento HIIT (allenamento ad alta intensità n.d.r.). Credo che lo sport in primis mi stia aiutando ad affrontare il problema, in quanto lo reputo un ottimo anti-depressivo. Ho imparato a prendermi cura di me stessa e a vedermi meglio.
Adesso ho avuto la fortuna di incontrare una persona che crede molto in me e che vede oltre al mio fisico e questo mi fa stare bene.

I: Che tipo di aiuto avresti voluto?

J: Avrei voluto che chi era con me in quel momento mi capisse. Che qualcuno si accorgesse che il mio non era solo un “mi piace mangiare”, ma che era un vero e proprio grido di aiuto. Non so esattamente di che tipo di appoggio avrei avuto bisogno. Sicuramente avrei voluto essere compresa.
Mi sembrava di essere una drogata, adesso ho tolto completamente lo zucchero dalla mia vita, quelli che mi servono li assimilo dalla frutta, ma la prima settimana senza zucchero ero una larva, con frequenti mal di testa, ero sempre stanca.
La mia manna è stata trovare la terapeuta più adatta a me, che mi ha fatto fare un ragionamento giusto. Non ho ancora risolto completamente, ma non lo vedo più come un problema. Prima facevo fatica ad uscire, a mostrarmi, adesso ho perso 15 kili e sto imparando a piacermi. Mi guardo e mi piaccio.
Durante il lockdown sono uscita a buttare la spazzatura in canottiera, braghette corte e anfibi, mi sentivo una gran figa. Non mi interessava se si vedevano le mie curve, mi sentivo sicura di me.

Spero che questo articolo possa spingere chi soffre di disturbi dell’alimentazione a non vergognarsi e chiedere aiuto, prima che possa diventare un problema.

Educatori, ma non solo

di Sara Fievoli
22 Maggio 2020

Oggi volevamo raccontarvi di una storia differente.

L’ambito sociale, come si sa, affronta ogni giorno molte difficoltà specialmente in questo periodo in cui, oltre al lavoro con i nostri ragazzi, noi educatori ed altri operatori sociali dobbiamo pensare anche al contesto generale che sta affrontando la nostra società.

Una figura che in questo momento si sta dimostrando un braccio destro per noi in questo periodo di crisi, è il volontario. Nel suo atto di aiuto, anche lui a suo modo educa.

Un esempio ne è una volontaria presso un ente per la promozione alla carità, la quale svolge lezioni individuali di italiano per alcuni stranieri che usufruiscono di tale servizio. Con piacere vi lascio al suo racconto.

“Quando svolgevo le lezioni di italiano in aula utilizzavo come strumenti didattici delle schede e brevi video in stile cartone animato, in modo tale che fossero semplici ma efficaci nelle spiegazioni dei concetti più complessi: per esempio come porsi in un colloquio o come fare delle richieste ad un commesso.

Nel passaggio alle lezioni in videochiamata ho cercato di mantenere lo strumento del video, anche se mi sono resa conto che il vederlo senza la mia presenza fisica li poneva in un atteggiamento titubante, come se avessero una maggiore percezione della difficoltà del compito che gli richiedevo e ciò li spaventava. Per coloro che invece possiedono un livello di conoscenza più alto di italiano, si presentava lo stesso come un metodo didattico funzionale, ma al contempo non ugualmente efficace come una lezione dal vivo. Poi influisce molto anche il fattore motivazionale: per coloro che hanno un obiettivo ed interesse ad imparare, nonostante le difficoltà si impegnano e si sforzano molto di più rispetto ad altri, dando tantissima soddisfazione.

Non è da dare per scontato il contesto.

Penso che il solo fatto di recarsi in un luogo, sapendo che lo si sta facendo perché per un’ora si farà la lezione di italiano, pone un atteggiamento più focalizzato ed attento. Alla fine dei conti con una video lezione si entra virtualmente nella casa di qualcun altro e nella sua sfera privata. Tutto ciò penso che pone la relazione in un ambito diverso rispetto da quando si è in un’aula. Inoltre vi è il problema di terze persone che interrompono o addirittura intervengono durante la lezione, per non parlare di rumori e schiamazzi esterni. Tra le altre cose, purtroppo non tutti riescono ad avere i mezzi idonei per poter usufruire di una buona connessione internet, di un computer o un cellulare che risultino funzionali alla lezione. In effetti, una difficoltà non da poco sono i problemi di connessione internet che portano a continue interruzioni e si perde gran parte del tempo più a ricollegarsi oppure a ripetere “Ci sei? Ora mi senti? Ora ci sei?”.

Alla lunga diventa sfiancante sia per me che per la persona che sto aiutando, oltre a portare ad un inevitabile calo dell’attenzione.

È una situazione che crea disagi e fa sì che si percepisca ancor più la distanza.

Facendo lezioni in videochiamata, si avverte molto la mancanza del contatto umano, il vedere l’altro e riuscire a capire se sta realmente comprendendo o se sia il caso di intervenire con parole differenti e più efficaci.

Avere uno schermo davanti rende il rapporto tutto più sterile. Mi mancano il contatto fisico ed i sorrisi a fine della lezione che ti danno un feedback umano, un calore, un comunicare nonostante la difficoltà della lingua.

Malgrado le problematiche date dalla distanza, mi è capitato che alla fine della lezione mi ringraziassero per quell’ora dedicata a loro.

Probabilmente l’essere vicini anche se distanti ed il fare anche nel nostro piccolo, permette alle persone di non sentirsi abbandonate ed avere un po’ di normalità anche in questo momento particolare.

Questa è la testimonianza di una volontaria, ma ascoltandola è possibile rendersi conto che è un problema che accomuna noi educatori ma anche per esempio gli insegnanti e altre figure ancora, che nel loro lavoro hanno il compito di educare.

Avete consigli, strumenti o altri metodi che voi utilizzate nel vostro lavoro?

Se avete piacere di condividerli con noi, saremo felici di portare la vostra esperienza.
E chissà, magari sarà di aiuto per qualcun altro!

Quella vocina che spesso ci frega

15 Maggio 2020

Luigi Luvinetti
Coach in Programmazione NeuroLinguistica

Tutti noi abbiamo una voce che ci parla nella testa, è la voce dei nostri pensieri.
È una sorta di dialogo interno che ci accompagna per tutta la giornata.
Potremmo definirlo come la somma delle domande che ci facciamo e delle risposte che ci diamo.

Fin qui tutto normale, stai tranquillo, non sei pazzo se parli tra te e te. O almeno, se così fosse lo saremmo tutti e…di conseguenza non lo sarebbe nessuno.

Quando dico che la voce dei nostri pensieri ci accompagna durate tutta la giornata sono serio e, più di quello che potresti pensare. Quello che ti dici ha delle implicazioni importanti sulle scelte che attui e sui comportamenti che metti in campo. E sia che si tratti di un campo da gioco o che il gioco si svolga nel campo più grande (quello della vita), credo che sia importante comprendere come giocare al meglio delle nostre possibilità.

Riesci ad immaginare cosa succederebbe se ad ogni tentativo di fare qualcosa di nuovo o di approcciarti a una persona che ti interessa conoscere quella voce ti dicesse frasi come: “non ce la puoi fare!”, “lascia stare!”, “non fa per te!” o, ancora peggio, “non sei portato per queste cose!”? Se ci pensi bene, è un po’ come essere in due sulla stessa barca ma quello più allenato dei due ti rema contro. Dove pensi che vada la barca?

Ho conosciuto questo fenomeno con il nome di self-talk, (o dialogo interno), quando studiavo all’università, durante il corso di Psicologia dello Sport. Nonostante la materia mi affascinasse parecchio, ero ancora molto lontano dal comprendere le implicazioni che tutto questo poteva avere nella performance sportiva di un atleta e, ancora di più, nella performance di quel gioco più grande che si chiama vita.

Oggi con qualche anno di studio ed esperienza sul campo in più, posso dire di aver compreso meglio gli insegnamenti di quel corso che mi ha aperto le porte sul mondo del coaching.

Ed è proprio grazie a quello che faccio che ho la possibilità di incontrare tante persone e ognuna di esse, a modo suo mi fa crescere e mi aiuta a diventare un Coach migliore, condividendo con me le proprie esperienze di vita.

Imparare a gestire un dialogo interiore, in modo che diventi più funzionale, è uno strumento fondamentale per andare nella direzione dei nostri obiettivi.

Spesso e volentieri neanche sappiamo che la gestione di quella voce ce l’abbiamo noi. Noi abbiamo il telecomando con il quale decidere se abbassare il volume di quella voce, fino a farla sparire o ad aumentare il volume fino a farla diventare un tifo da stadio.

Il punto è che se queste cose nessuno ce le dice sarò difficile farci caso e se non siamo consapevole di qualcosa, non possiamo lavorarci sopra. Spesso, sono proprio questi processi mentali che ci permettono o meno di esprimere le nostre potenzialità.

Cosa succederebbe se riducessimo il volume di quella voce che ci tiene fermi ai blocchi di partenza e, invece, alzassimo il volume di quella che ci incita a correre al massimo verso i nostri traguardi?

La comunicazione, quella più importante, è quella con noi stessi. Il resto è un riflesso.

Luigi Luvinetti
coach in Programmazione NeuroLinguistica

Educatori? Presenti.

di Cristina Sant e Federica Giugno

– Una riflessione libera sul ruolo, le percezioni e le emozioni degli educatori durante il coronavirus –

Tutti noi siamo molto riconoscenti e grati per il meraviglioso lavoro che stanno svolgendo i nostri medici, gli operatori sociosanitari, la protezione civile, i cassieri dei supermercati, le forze dell’ordine e tutte le figure operanti durante questa emergenza del COVID-19.

È senza dubbio un periodo complesso e difficile su molti fronti. La crisi economica e lavorativa ha messo a rischio liberi professionisti e lavoratori dipendenti colpendo di conseguenza molte famiglie italiane.

All’interno di tutto questo marasma c’è una figura che si sta muovendo nell’ombra ma si trova pur sempre in prima linea, una figura che non è mai stata nominata ma che sta svolgendo un lavoro fondamentale: L’EDUCATORE PROFESSIONALE.

Questa figura un po’ misteriosa e spesso incompresa, il suo ruolo e i suoi compiti ancora non sono ben chiari a molte persone.

In questo particolare momento storico non voglio definire questa figura come un “super-eroe”. La sua è una missione che viene dal cuore, il più delle volte l’educatore non sceglie di esercitare questa professione ma è semplicemente il percorso naturale della sua esistenza.

L’educatore è quella figura professionale, sanitaria o pedagogica, che opera all’interno di strutture residenziali e diurne rivolte a persone diversamente abili, anziani e minori, lavora all’interno delle scuole, a casa delle famiglie, per le strade…

L’educatore promuove il sostegno e lo sviluppo del benessere psico-fisico della persona fragile, progetta e attua interventi per garantire un’alta qualità di vita della persona tenendo ben presente tutte le caratteristiche di ogni singolo individuo.

Con l’arrivo del COVID-19, l’educatore che opera all’interno delle strutture sta passando un periodo di “messa alla prova”.

Di punto in bianco sono state chiuse le porte dei centri residenziali, nessun signore/a può uscire e nessuno può entrare. Inizia così un duro percorso per gli ospiti delle strutture, ma anche per tutte quelle famiglie che si ritrovano private di andare a far visita al loro caro.

L’educatore deve far fronte a due aspetti:

1. spiegare all’ospite la motivazione per cui non può più uscire né ricevere visite dalla sua famiglia (aspetto non sempre compreso se ci troviamo di fronte a una persona con limitazioni).

2. fare forza e coraggio a tutte quelle madri, sorelle, zie, ai padri, cognate e cognati che telefonano piangendo perché non possono abbracciare il loro caro. E credetemi…questo spezza il cuore.

Queste famiglie fanno il possibile per poter stare vicino al loro parente attraverso una videochiamata, a dei regali inviati tramite il corriere, delle lettere scritte, delle mail ricevute. Si sente così nell’aria un amore ancora più forte di prima e questo viene ben percepito dai nostri ospiti!

In ogni struttura sono state adibite delle stanze di isolamento nel caso in cui il virus arrivasse a colpire gli ospiti.

Ecco qui che inizia la trasformazione dell’educatore: guanti, mascherina (DPI già in uso), tute verdi o bianche, caschi con visiera, occhiali protettivi, cuffia e copriscarpe. Adesso assomigliano più a degli astronauti che a degli educatori.

Immaginate voi la paura che hanno creato negli ospiti nel vederli così “conciati” e senza che tutti capissero pienamente il motivo.

Anche l’educatore che si reca dalle famiglie si ritrova ad affrontare diverse difficoltà. L’intervento via webcam è molto complicato sia per gli educatori che per i genitori e i loro bambini.

La comunicazione va a perdersi perché i bambini, soprattutto i più piccoli, non capiscono pienamente la necessità di un intervento via Skype, fanno molta fatica e lo vedono come un dovere più che come un’attività rilassante e piacevole come è di consueto l’intervento educativo domiciliare.

I genitori si sentono abbandonati dal sistema, ora troppo impegnato ad affrontare temi più “urgenti”, ma l’educatore è sempre lì al loro fianco, anche se non è più in servizio, se non viene più retribuito, trova sempre un momento per telefonare alle sue amate famiglie per dar loro un po’ di conforto e supporto.

Queste figure professionali hanno asciugato tante lacrime reprimendo le loro per non trasmettere la loro paura, il loro dolore; devono essere forti per i ragazzi e le loro famiglie. Loro dicono “andrà tutto bene” e lo credono per davvero!

Noi educatori viviamo di abbracci infiniti, di tocchi, di carezze sul viso, di baci affettuosi. Questa è la nostra essenza.

Il contatto fisico è per noi fondamentale: prendere in braccio un bambino, dirigergli fisicamente la mano in modo che apprenda una nuova azione, accarezzare il viso di una persona allettata e vedere che ti sorride… queste sono solo alcune manifestazioni con cui noi operiamo.

Il decreto di mantenere le distanze sociali e la limitazione dei contatti fisici è stato un duro boccone da mandar giù.

Come far capire ai nostri ragazzi che non ci potevano più abbracciare al nostro arrivo? Abbiamo utilizzato metodi alternativi ma ovviamente non saranno mai la stessa cosa!

Il COVID-19 ci ha tolto tanto ma la cosa più bella è che anche se indossiamo la mascherina si vede che sorridiamo!

#PILLOLEdiITALIANO al via!

i primi passi del progetto a favore dei percorsi formativi per minori stranieri

L’emergenza sanitaria attuale colpisce le fasce più vulnerabili della popolazione, tra cui i migranti, i quali attualmente sono accolti, in alcuni casi, presso affollati centri di accoglienza o di detenzione amministrativa, con le problematiche a ciò connesse. La situazione emergenziale ha dimostrato come sia necessario ripensare all’accoglienza in termini di “accoglienza diffusa”, un approccio oggi ancor più significativo per far fronte all’emergenza sanitaria ed evitare il persistere di situazioni di assembramento o sovraffollamento delle strutture ricettive. 

La tematica che in questo contesto interessa maggiormente l’associazione Liberi Educatori è l’interruzione di ogni tipo di percorso formativo, dal basilare studio della lingua italiana ai più importanti percorsi professionalizzanti in cui erano coinvolti principalmente i minori stranieri non accompagnati (MSNA). Ciò che spaventa è in particolar modo l’incertezza che avvolge la quotidianità dei minori. Già precedentemente all’avvento del COVID-19 l’incertezza e il rischio marginalità tendevano ad enfatizzarsi in relazione allo scenario sociopolitico in evoluzione.

In conseguenza a tale scenario l’associazione Liberi Educatori, in collaborazione con le principali comunità di accoglienza per MSNA del territorio friulano, ha sviluppato una riflessione sul tema dell’inclusione sociale dei minori stranieri e delle possibili azioni in tal senso.

Da qui nasce la nostra idea: quali azioni possiamo attivare per diminuire la “distanza tra NOI E LORO”?  Come possiamo offrire speranza ai minori stranieri, riducendo il senso di incertezza e potenziando le capacità di inclusione? Ed, in particolare per i MSNA impossibilitati a ricevere una formazione adeguata in questo momento: quali attività educative o didattiche possono essere attivate in loro favore?

Grazie alla collaborazione della comunità alloggio Carpe Diem, di Aedis Onlus, è stato avviato un percorso di attività formative ed educative finalizzato al potenziamento linguistico, all’educazione civica ed alla capacitazione lavorativa.

La prima fase del progetto mira a coinvolgere i MSNA delle comunità di accoglienza nella creazione di 4 video brevi, di massimo 3/4 minuti che diventino appuntamenti programmati in cui vengano presentate piccole scene di vita quotidiana recitate direttamente dai minori.

Ai fini della privacy e della tutela dell’immagine del minore straniero, al video verrà applicato successivamente il filtro “cartone animato” al fine di non rendere riconoscibili i volti e le identità dei soggetti coinvolti.

Cogliamo l’occasione per ringraziare la comunità alloggio Carpe Diem e
Aedis Onlus per la collaborazione e l’intraprendenza.

Sono numerose le comunità di accoglienza sul territorio friulano: Liberi Educatori si impegnerà a sviluppare ed a espandere la proposta progettuale.

#costruireilnuovo
#minoristranieri
#comunità

Aedis Onlus – Aedis Onlus

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Comunità Alloggio Carpe Diem

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