Verso una sessualità più inclusiva

22 settembre 2020 Federica Giugno

Nell’immaginario collettivo, ancora oggi la persona con disabilità è troppo spesso vista come un angelo senza sesso e senza età, pochi immaginerebbero che in realtà crescendo aumentano, anche per queste persone, i bisogni affettivi e sessuali.

Nella dichiarazione dei diritti sessuali del 2006 viene ribadito il concetto di riconoscere anche ai portatori di handicap, fisici e cognitivi, di esprimere la loro sessualità.

Già approvato nel documento del 1993 emesso dall’assemblea Generale dell’Onu, questo è un concetto purtroppo ancora non chiaro a tutti in Italia, infatti è uno dei pochi Stati in cui manca (in particolar modo nelle strutture pubbliche) un’educazione sessuo-affettiva da parte di professionisti specializzati che aiutino questi soggetti a raggiungere il più alto livello di salute sessuale e che eviti che, specialmente chi è più emarginato dalla società ricorra al soddisfacimento dei bisogni sessuali tramite la prostituzione o l’intervento fisico dei familiari. Condurre l’utente al raggiungimento di una maturità affettiva è anche educare alla comprensione di quelli che sono i suoi bisogni e quelli altrui con dei programmi specifici tenendo conto del tipo di disabilità.

Quando si parla di sessualità nell’ambito della disabilità, purtroppo l’opinione pubblica tende a generalizzare senza tener conto del fatto che non tutte le disabilità siano uguali; infatti il disabile fisico deve affrontare, nel momento in cui si affaccia a questo mondo, un lungo percorso fatto di accettazione di sé e dell’immagine che gli altri hanno di lui.

Spesso ci troviamo “nell’incapacità di fare”, o ci si trova “nell’incapacità della responsabilità di fare”. In entrambi i casi però il sesso e l’affettività devono diventare un piacere di cui godere e non un problema da risolvere.

Nella mia esperienza con la salute mentale mi è capitato che i miei utenti, nonostante l’età matura mi chiedessero come fare ad affrontare questo argomento, mi è stato detto che sentivano l’impulsi sessuali ma anche l’impulso di amare ma non sapevano come sfogarli, come affrontarli, perchè alcuni, rendendosi conto della loro diversità, avevano paura di approcciarsi a qualcuno che non stesse vivendo la stessa esperienza di residenzialità o semplicemente di percorso.

Allora con non poco imbarazzo ho risposto alle loro domande, che erano le più disparate, ma alle quali era necessario trovar una risposta che li aiutasse a chiarire cosa fosse per loro vivere l’intimità.

Per alcuni di loro, specialmente per i meno consapevoli, è come vivere una favola: uno sguardo o una stretta di mano potrebbe essere vista come l’inizio di una storia o addirittura il compimento di un atto sessuale.

Se queste persone avessero la possibilità di essere informate da specialisti, in maniera dettagliata e non superficiale, potrebbero anche vivere il loro corpo in maniera diversa, con la possibilità di esplorarsi con consapevolezza ed evitare alcune frustrazioni dovute all’impulso.

Trovo che la mancanza di un’educazione sessuale all’interno delle strutture sia una vera e propria violazione dei diritti: è come l’ennesima gabbia dove rinchiudere l’utente dimenticandosi che prima di tutto si tratta di una persona, fatta come tutti di carne e sentimenti.

La frustrazione che crea il non potersi esprimere, secondo me, potrebbe anche peggiorare la loro condizione.

Basta pensare a come si può sentire una persona qualsiasi durante un periodo di forte astinenza dovuta alla mancanza di un partner o ad un disagio del momento per rendersi conto della sofferenza provata da una persona con disabilità fisica o cognitiva alla quale puó venire addirittura impedita la possibilità di avere una relazione affettiva e sessuale nel momento in cui inizia a provare un impulso.

Fortunatamente oggi si è iniziato a parlare di questo tema, ed alcuni personaggi pubblici con disabilità hanno portato anche le loro testimonianze in alcuni video sui social (Jacopo Melio, Arturo Mariani, Alex Dacy, Valentina Tomirotti…) per dire al mondo intero che vivere la propria sessualità, anche con una disabilità, non solo è possibile, ma è anche bellissimo.

Giudizio e pregiudizio

12 settembre 2020 Luigi Antonio Luvinetti

Quando si discute della comunicazione e delle sue barriere non si può fare a meno di parlare di un processo mentale che tutti noi abbiamo sperimentato in un modo o nell’altro: il pregiudizio.

I pregiudizi possono, a tutti gli effetti, compromettere l’efficacia del processo comunicativo portandolo fino al più completo fallimento.

Ma che cos’è un pre-giudizio, come si forma e perché è così determinante?

Un pre-giudizio, lo dice la parola stessa, è un giudizio dato su qualcosa o qualcuno prima ancora di avere avuto la reale possibilità di conoscere quella persona o di avere provato quell’oggetto.

Questo avviene perché il nostro cervello ama usare delle scorciatoie per trovare le soluzioni che cerca e si sa… le scorciatoie ci fanno risparmiare tempo ed energia. Per fare tutto questo, il cervello tende a generalizzare delle informazioni per creare una regola da poter utilizzare quando ne avrà bisogno. In pratica tende a fare “di tutta l’erba un fascio”.

In psicologia si parla bias cognitivo.

Di solito il pregiudizio nasce da una informazione che ci è stata data da qualcuno di cui ci fidiamo e che, automaticamente, diamo per buona senza averla verificata in prima persona.

Mai sentito sentito parlare dell’effetto Nobel? É quello che avviene quando una persona che ha una certa autorevolezza in un determinato campo esprime una sua personale idea su qualcosa di non attinente alle sue competenze e automaticamente anche ciò che ha detto (che potrebbe non essere corretto) viene percepito come una verità.

Il cervello dice:”Se lo ha detto lui, deve essere vero!”

Altre volte il pregiudizio nasce dall’idea che ci siamo fatti di qualcuno perché abbiamo vissuto un esperienza poco positiva con una persona e per semplificare e proteggerci, il nostro cervello elabora una strategia che ci avverte di un probabile pericolo qualora venissimo di nuovo in contatto con qualcuno che lui ritiene simile a quella persona che ci ha causato una volta, in passato, una sorta di dolore.

Il cervello dice:”Se è successo una volta, può ripetersi!”

Il pre-giudizio è un meccanismo inconscio che il cervello crea  per difenderci da un eventuale dolore. La fiamma che alimenta questo processo è, però, la mancanza di conoscenza che ci può fornire solo l’esperienza personale.

Il giudizio sta nel verificare come stiano effettivamente le cose e poi tirare le somme.

Se vogliamo veramente comunicare con qualcuno, bisognerebbe avere il coraggio di mettere da parte (almeno momentaneamente) eventuali pregiudizi e valutare se valga la pena o meno di investire tempo ed energie per creare qualcosa con quella persona.

Ma se partiamo dal presupposto sbagliato, tutta la nostra comunicazione sarà gestita da quel pensiero.

Chissà quante occasioni ci siamo lasciati scappare senza neanche accorgercene?

Quello che volevo dire è che come educatori abbiamo l’obbligo morale di metterci in gioco per primi nel processo comunicativo. Abbiamo quella  responsabilità che deriva dalla consapevezza di non sapere mai chi abbiamo davanti e quali cose potrebbe essere in grado di fare se gliene dessimo la possibilità

Noi siamo possibilità, non le togliamo.

Luigi Luvinetti – Coach in Programmazione NeuroLinguistica