Riflessioni sparse in mezzo al caos

22 dicembre di Isotta Orlando

Siamo Educatori ma siamo anche esseri umani e ognuno di noi è stato toccato da questa pandemia in modo diverso, ci siamo chiesti che fare, abbiamo avuto paura e abbiamo cercato speranza, non sempre siamo riusciti a stare fermi quando intorno le cose sembravano peggiorare ogni giorno di più. Trovare lo spazio e il tempo per far guardare negli occhi l’Educatore e la Persona che convivono dentro di noi permette una riflessione, rende possibile trovare un equilibrio tra la dimensione emotiva e quella professionale. E non sempre è facile mettere d’accordo pancia, cuore e cervello, ma dobbiamo farli dialogare per capire noi stessi prima di entrare in relazione con gli altri.

Tre voci, simili e diverse hanno fatto capolino nel dialogo e ve le riportiamo per farvi capire come ognuno di noi abbia guardato il mondo in modo diverso in questi mesi.

C:

Cosa succede quando il mostro esce da sotto al letto?

Tutti sanno che c’è. Qualcuno lo ignora, qualcuno ne parla, nessuno lo sconfigge, è una presenza costante.

Per tutta la vita cerchi di prepararti al momento in cui salterà fuori.  

Torce, canzoni, magari una mazza da baseball accanto al comodino, ma è una paura primordiale. Abbiamo ereditato la storia del mostro sotto al letto, la Madre di tutte le paure, dagli uomini primitivi sotto al cui albero giravano affamate le fiere, saltavano fuori di notte ringhianti e con gli occhi brillanti.

Quella era una paura fondata. Le zanne erano veramente pochi metri sotto al ramo, gli artigli grattavano davvero contro il tronco e le bestie erano davvero affamate.

Facendosi un po’ di coraggio si può andare a vedere sotto al letto, ci sarà qualche batuffolo di polvere, forse un calzino dimenticato, ma sicuramente non ci sarà un mostro. Allora dov’è?  Nulla di più facile. È dentro di noi. Allora come si combatte?

Da un po’ di tempo mi ripeto una filastrocca, che forse sta stancando anche me, “voglio essere la migliore versione di me stessa” questo vuol dire nel concreto essere determinata, smettere di procrastinare, affrontare le paure.

Va tutto bene, finchè il mostro non esce da sotto al letto.

Tamponi positivi, sia il mio che quello di mia mamma. Io asintomatica, mamma allettata con febbre e tosse, in una casa di 60 metri quadri e un bagno. Sento il peso della responsabilità e non riesco a tirarmi su. Ce la faccio per poco, ma poi crollo di nuovo nella realtà della situazione.  Fin dove può arrivare la sopportazione? Non è un dolore fisico il mio, “se è intenso è di breve durata”.  È più subdolo “se dura a lungo è sopportabile”. Lo senti nelle ossa, incurva la schiena, abbassa gli occhi, i piedi sono pesanti e strisciano a terra. È un momento difficile e ai momenti di preoccupazione in cui si igienizza qualsiasi superficie, si alternano i momenti di paura.

Il mostro è uscito da sotto al letto.

Per tutta la vita cerchi di prepararti al momento in cui salterà fuori,

ma non sarai mai pronto.

I:

Il Covid è sempre stato di casa, già a gennaio quando mamma ha iniziato a ricoverare giovani con strane polmoniti, sebbene nessuno le desse ascolto e le linee di prevenzione fossero inesistenti. Poi è entrato con fermezza in casa, era inevitabile, un mese senza varcare il cancello, come tutti gli altri ma con la preoccupazione che quel virus arrivasse ai polmoni malmessi di papà, con mamma chiusa nella sua camera, con guanti, mascherine e candeggina che sono diventati routine.

E notizie spesso contrastanti, confusione e forse anche paura, mi aggrappavo a piccoli obiettivi, cercavo soluzioni creative alla noia, guardavo il futuro annebbiarsi sempre di più, spesso mi trovavo in lacrime senza sapere perché. Ho smesso di aprire i giornali e i social, mi sono chiusa in una bolla che scoppiava ogni volta che arrivavo a tavola, Zaia ci ha fatto compagnia ad ogni pasto, con catastrofici numeri e misure per arginarli, non oso immaginare cosa abbiano immaginato i bambini che hanno visto disgregarsi il mondo attorno a loro, io ho pensato che il mondo stesse definitivamente andando a rotoli.

Senza via d’uscita,

così si sentiva la mia migliore amica, ed io impotente la imploravo di resistere un giorno in più, sentendomi inutile dall’altro lato del telefono, cercando di convincerla a chiedere aiuto a qualcuno che oltre alla professionalità potesse avere quell’oggettività che a me mancava. Mi chiedevo se i centri di salute mentale avrebbero avuto risorse per rispondere a tutti quelli che come lei si sentivano mancare la terra sotto i piedi, immaginavo l’aggravarsi di diverse problematiche e nel mio cervello ormai deviato da deformazione professionale mi chiedevo fino a dove la tutela della salute fisica potesse incidere sulla salute mentale.

Poi, finalmente, l’estate, e lo sforzo di tornare ad una normalità che sembrava come nascondere la polvere sotto il tappeto, con la consapevolezza che sarebbe uscito ai primi freddi, che non avremmo dovuto dimenticarcene così in fretta. Le continue raccomandazioni di mamma si trovava ancora di fronte a persone ammalate nonostante il mondo fosse tornato in vita.

E poi di nuovo chiusure, regole, igienizzante e tamponi. E Paura, con la P maiuscola, perché non si riesce a vedere la fine, perché ci aggrappiamo a piccole speranze quotidianamente disattese, perché ogni giorno il nostro futuro si fa meno definito, perché nonostante gli sforzi di ognuno sembra che il mondo per come lo conosciamo non possa tornare come prima. E invidio tutti quelli che riescono ad avere ancora speranza nel cuore, sarà che mi circondo di cinismo ma non riesco a provare a me stessa il senso di ottimismo che una volta era ben radicato in me.

Ci è passato troppo vicino per poterlo ignorare, ma ogni giorno sorrido ai bambini da sotto la mascherina, cerco di dargli la massima libertà ricordandogli però le nuove regole che incidono sui i loro corpicini e sulle loro menti in costruzione.

ogni giorno sorrido ai bambini da sotto la mascherina, cerco di dargli la massima libertà ricordandogli però le nuove regole che incidono sui i loro corpicini e sulle loro menti in costruzione.

Come saranno questi adulti di domani, alcuni di loro, si vede già, portano dentro ansie enormi, grandi come case che lasciano noi adulti atterriti e quasi incapaci di fronteggiarle.

Dobbiamo imparare un nuovo modo di relazionarci; dobbiamo ricominciare da capo e nel nostro lavoro di cura e relazione dove spesso un tocco vale più di mille parole, dove un abbraccio può aggiustare, dove le strette di mano, gli sguardi e le rughe del viso aiutano chi ci sta di fronte a fidarsi di noi;  dobbiamo trovare un linguaggio nuovo, un nuovo modo di prenderci cura.

Non è facile ridimensionare le proprie azioni, sentirsi bloccati da nuove regole, sapere quanto queste intralcino ancora di più la vita già complicata di chi incontriamo nel nostro lavoro. Dobbiamo essere forti per loro, poi torniamo a casa, chiudiamo la porta e ci sentiamo minuscoli ma siamo pronti a lavare via le preoccupazioni, ad attuare strategie per non perderci in vicoli ciechi e bui per poter tornare a lavoro con il sorriso e la speranza il giorno dopo.  

A:

L’Educatore è la figura di riferimento proprio per le competenze nell’accogliere i problemi della persona e guidarla in pratica ad una risposta che sia personale e adeguata.

Gli Psicologi fanno altro, si occupano di identificare i meccanismi per cui una psiche funziona dando quelle risposte. Gli psicoterapeuti supportano la stabilità psichica, non la quotidianità. I medici identificano e gestiscono le patologie mentali che hanno bisogno di farmaci o terapie mediche, chiaramente

l’educatore non può lavorare da solo, ma non confondiamo i compiti e ricordiamoci che siamo noi che diamo le risposte quotidiane, pratiche,

maledette ma benedette per le persone che ancor prima di identificare il meccanismo che sta dietro hanno bisogno di una risposta pratica. Non facciamo nulla da soli, ma possiamo fare tantissimo, anche “solo” raccogliere le tensioni e dar loro un impianto logico da poter affrontare.

Storia di Alice

di Alice, 8 dicembre 2020

Ho ancora i brividi se ci penso: Io, lui, Disneyland e una proposta di matrimonio; cosa si può desiderare di più? D’altronde è il sogno di ogni bambina.

Poi le “classiche” cose: l’emozione di parlarne con i parenti, organizzare la cerimonia, vedere l’abito da sposa, la sensazione di sentirsi realizzati, di avere finalmente la vita in pugno.

Ti guardi allo specchio e dici “sto in una favola”, ma non sempre le favole sono a lieto fine, giusto?!

Iniziarono i preparativi, e man mano che progredivano le discussioni su ciò che andava bene o meno si fecero sempre meno sporadiche, dapprima una volta ogni tanto, poi qualche volta durante la settimana ed infine ci trovammo a litigare ogni giorno su tutto.

Mi sentivo un po’frustrata, non capivo cosa fosse cambiato, cosa ci facesse ora mettere in discussione tutto.

Le discussioni continuavano ogni singolo giorno per ogni singola cosa, erano più le volte che piangevo di quelle in cui sorridevo.

Finché non sono arrivati anche i primi insulti; inutili ed ignobili, non meritano nemmeno di essere riportati, quello che mi fa star male tutt’ora, anche a distanza di un anno e mezzo, è “non vali niente”.

Mi sentivo così piccola e inutile, alle volte, senza rendermene conto mi rannicchiavo nell’angolo del divano con le ginocchia al petto e lo sguardo perso nel vuoto.

Nell’ultimo periodo ricordo che mi svegliavo piangendo e mi chiedevo dove stessi sbagliando o cosa facessi di male, cosa gli mancasse, cosa meritava. Questo “mal stare” aveva ripercussioni anche a livello lavorativo: arrivavo a lavoro cercando di nascondere tutto e per un periodo relativamente lungo ci sono anche riuscita, però, mi resi conto che non ero motivata, non avevo idee per nuove attività, avevo la mente completamente vuota; nella testa mi riecheggiavano solo i suoi insulti e le sue offese.

Un giorno decisi di cambiare atteggiamento: quando c’era una discussione scappavo, uscivo molto di più pur sapendo che a lui dava fastidio (era un ragazzo molto geloso e possessivo/ossessivo), gli rispondevo a tono, finivo di lavorare e tardavo nel tornare a casa per non trovarlo; queste “piccole” cose mi permettevano di tirare un sospiro di sollievo e capire cosa fare, cercavo di comprendere cosa provassi per di lui.

Una sera uscii e tornai a casa tardi, lui mi stava aspettando, ovviamente, e mi chiese dove fossi stata, con chi fossi. Potete immaginare le domande che una persona gelosa e possessiva fa in questi frangenti.

Me lo ricordo benissimo, in ogni minuscolo dettaglio, seduta sul letto, a mezzanotte. Iniziò a discutere, io non ne avevo più le forze; volarono insulti e offese, io, lo sguardo fisso nel vuoto, lo lasciavo fare, ad un certo punto spinta da una forza che non immaginavo di possedere, mi alzai e decisi di infilare in uno zaino pigiama e spazzolino, giusto per passare la notte fuori, non sapevo dove andare, ma DOVEVO andare via.

Gli insulti si fecero più pesanti, prese le mie chiavi e mi chiuse dentro casa con lui; nascose le sue chiavi, in quell’attimo ebbi davvero paura, subdola, paralizzante paura, iniziarono a vorticarmi nella testa mille altri interrogativi, mi chiedevo se sarebbe stato in grado di colpirmi, mi domandavo se sarei riuscita a trovare un modo per uscire da lì. Mi fiondai verso di lui per prendergli le chiavi, senza però riuscirci, iniziò a spingermi, io mi sentivo impotente davanti alla persona che avrebbe dovuto proteggermi, davanti al mio futuro marito.

Presa dal panico chiamai l’unica persona che sapeva tutto, la mia migliore amica; volevo chiamare i carabinieri, avrei dovuto, non so per quale motivo non l’abbia fatto e, ad oggi, credo di aver fatto la scelta sbagliata.

Dopo questo episodio mi servì un’altra settimana prima di uscire da quella che chiamavo “casa nostra”. Per mesi non ho mangiato, ero angosciata, sapevo che lui mi controllava e conosceva ogni mio spostamento.

Ho avuto la fortuna di avere gli amici che mi hanno aiutato molto, mi hanno supportato e difeso.

Oggi, dopo un anno e mezzo, lotto ancora con questo demone che mi porto dentro, mi ritengo molto fortunata perché alla fine non mi successo nulla di eccessivo, ma ho avuto molta paura, e seppur invisibile, questa ha lasciato su me una cicatrice. Ci sto ancora lavorando, con l’aiuto di una psicologa, perché chi come me si è siamo trovato in una situazione simile sa come sia semplice convincersi che sia colpa nostra, che le reazioni esagerate dipendano da noi, da qualche nostro sbaglio, ma non è così.

Da quando ho iniziato a guardare la vita con una prospettiva diversa ho capito improvvisamente dopo due anni, che non sono sbagliata come lui voleva farmi credere.