Diario di un’educatrice anonima

Scrivo, probabilmente cedendo a un momento di stanca disperazione.

Cosa vuol dire essere educatori? A questa domanda esistono tantissimi modi per rispondere. Ma cosa vuol dire essere educatori durante la pandemia? Anche qua, tante risposte…

E io ho la mia, molto personale. Mi sono laureata lo scorso novembre, tramite un pc, con la mascherina, senza tutti i miei cari vicino, senza poter festeggiare, dopo un percorso estenuante.

E, sempre a fine 2020, ho cominciato a lavorare con una cooperativa come educatrice professionale nelle scuole e nel servizio territoriale a domicilio. Ho preso la laurea e cominciato la mia carriera durante una pandemia ormai consolidata.

Avviarsi nel mondo del lavoro con prospettive a lungo termine (quindi non semplici lavori estivi o lavoretti da fare dopo le lezioni) è un’esperienza complicata per chiunque. Se poi, questo passaggio viene dominato da una situazione di incertezze, paure, fragilità e confusione… Be’, è ancora più complicato.

Una doccia gelata. Mi sono ritrovata a gestire dei casi delicati senza poter realizzare un’adeguata programmazione: in che modo si può creare un progetto educativo efficace ed efficiente per la persona quando non so se la settimana prossima la scuola sarà aperta? O se improvvisamente io o il minore siamo costretti alla quarantena? Per non parlare di quanti strumenti e di quante possibilità questo virus ci ha tolto.

 Le famiglie con cui lavoriamo sono in crisi, economica e non, famiglie che erano già delicate e fragili prima della pandemia. E i figli, i miei utenti, sono come spugne, assorbono il clima familiare ne soffrono.

Alle difficoltà della pandemia si aggiungono anche altri fattori, più classici di questo lavoro: mancanza di personale, comunicazioni dell’ultimo minuto, equipe che esistono solo sulla carta, colleghi inaffidabili , orari pesanti, sostituzioni improvvise.

E, infine, tutta la sfera personale dell’educatore, il quale improvvisamente fa più fatica a ritagliarsi dei momenti fuori dal mondo lavorativo perché non ci si può quasi muovere, non si può viaggiare, è difficile vedere gli amici, è difficile anche vivere serenamente la vita di coppia a causa del troppo stress.

Non sappiamo a quali certezze aggrapparci e far aggrappare i nostri utenti, i quali ora più che mai (consciamente o meno) hanno bisogno di un sostegno.

Ma è solo questo che vuol dire essere educatori nel 2021? Ovviamente no. Ed è questo “no” a farmi amare il mio lavoro nonostante tutto. Perché ci sono anche i momenti belli, durante i quali i tuoi sforzi vengono ripagati: un sorriso, un esito raggiunto, una parola in più, il complimento del capo, i ringraziamenti dei genitori…

Sicuramente ho iniziato la mia carriera con il botto in un periodo non facile. Spesso le gratificazioni non compensano la fatica e lo stress. Anche noi educatori siamo umani, con le nostre debolezze e fragilità, con le nostre paure e insicurezze.

Eppure, io e molti altri educatori non stiamo mollando e continuiamo a testa alta a fare il nostro lavoro… anche se molto spesso “nell’ombra”.

Ma questo è un altro discorso…

GENTIL-BREZZA: Educare alla gentilezza come antidoto all’egoismo sociale.

di Ilaria Pala

PREMESSA:

Educare alla gentilezza è un processo complesso, continuo, che si costruisce nella quotidianità attraverso il contributo di molti attori, dalla famiglia ai professionisti dell’educazione e dell’insegnamento.

Non si tratta solo di educare i bambini a dire parole gentili in date situazioni, bensì, con quest’approccio educativo, si propone di far cresce i bambini gentili, rispettosi di sé e degli altri.

Spesso però, ci si domanda se abbia senso in una società come quella odierna, e il periodo che stiamo vivendo, educare alla gentilezza.

A volte si pensa che essere troppo gentile sia sinonimo di debolezza, quando, in realtà, la gentilezza è una delle caratteristiche principali delle persone forti e sagge, di coloro non ricorrono alla violenza, verbale e fisica, per imporsi e che hanno un buona autostima: si sceglie di essere gentili, perché lo si sente e non per obbligo.

EDUCARE ALLA GENTILEZZA: LE ORME DA SEGUIRE.

Come si può educare alla gentilezza partendo dall’infanzia per far diventare i bambini adulti gentili?

In primis, è fondamentale dire che non si educa alla gentilezza attraverso istruzioni ma fornendo un modello da seguire: è poco funzionale dire a un bambino “ si deve fare così”, mentre è più utile mostrargli come attuare nella quotidianità atti di gentilezza, da cui il bambino potrà prendere esempio.

Tante volte, infatti, presi dalla frenesia della giornata, capita di rispondere in malo modo, dunque se il bambino osserva un adulto gentile con i suoi coetanei, e con i bambini, potrà prendere ispirazione da un modello positivo.

Educare alla gentilezza è un allenamento quotidiano. Più i bambini hanno modo di vivere atteggiamenti rispettosi e cordiali, più saranno portati a replicarli, perché considerati come normali.

E’ importante che l’adulto di riferimento (genitori come l’educatore o l’insegnate) mostrino un modello di comportamento gentile verso gli altri adulti e gli altri bambini, perché trattare ed essere trattati con gentilezza è il miglior modo per sperimentare quanto sia importante essere gentile con gli altri.

 Occorre poi che l’educatore valorizzi i comportamenti gentili: non è facile imparare ad essere gentili, per questo è importante che si valorizzino i comportamenti rispettosi dei bambini.

Se un bambino si avvicina a un suo compagno di classe per consolarlo, è bene rinforzare questo gesto gentile; essendo in fase di crescita i bambini stanno sperimentando vari approcci, e indirizzarli verso il più corretto, è il compito dell’educatore.

I bambini devono essere aiutati nel capire che certi gesti sono apprezzabili e molto importanti, non dicendo semplicemente “bravo” ma valorizzando quel dato comportamento con una frase che lo riviva: “ Sai, stato davvero gentile a stare vicino al tuo compagno quando era triste”.

Educare alla gentilezza significa anche confrontarsi sul cosa voglia dire essere gentili e rispettosi.

Ci si può confrontare su un evento di vita quotidiano e su un fatto personale, confrontarsi su cosa si potrebbe fare o su cosa avremmo fatto noi nella stessa situazione aiuta i bambini ad avvicinarsi alla gentilezza.

Si educa alla gentilezza fornendo anche un’educazione emotiva: Essere gentili significa essere rispettosi di sé e degli altri.

Parlare senza aggredire, confrontarsi senza litigare; significa imparare a riconoscere e gestire le proprie emozioni, evitando che esse si ripercuotano in modo incontrollabile sull’altro.

Ad esempio, ipotizziamo che un bambino sia davanti a noi, arrabbiato, e che cominci a rispondere male a noi e ai suoi compagni.

La prima cosa da fare è quella di prendere da parte il bambino e cercare di tranquillizzarlo. Dopo averli chiesto il perché del suo stato, gli si dirà che ha tutto il diritto di essere arrabbiato, ma che, tuttavia, non è corretto prendersela con noi e con i suoi compagni.

In questo modo, si aiuterà il bambino a riconoscere correttamente le emozioni che prova, arrivando poi con il tempo a gestirle al meglio, aiutandolo con strumenti teorici e strategie educative di supporto.

Quando si parla di educazione alla gentilezza non è possibile non parlare di empatia: imparare a mettersi nei panni dell’altro e riconoscere come ci si può sentire promuove la gentilezza più di qualsiasi imposizione.

GENERAZIONE ANSIA

di Isotta Orlando e con GenerazioneAnsia

In tempi normali avrei preso un treno, guardato scorre i campi che ormai conosco a memoria e avrei invitato questi due ragazzi in un bar del centro di quella che ormai non è più la mia città.

Ci saremmo guardati da dietro un caffè, o forse uno spritz, e avremmo parlato a lungo.

Invece ci troviamo di fronte ad uno schermo, tre millennials (fingendo di non essere nata in quell’anno di limbo, troppo piccola per ricordare gli anni 90, troppo grande per apprezzare TikTok), tre millennials qualsiasi.

Le domande le ho pronte da un po’ ma chissà dove ci porterà questa intervista.

Alice e Giulio si sono conosciuti in quel meraviglioso calderone di persone e idee che è Venezia, e li immagino mentre si raccontano tra le calli o in qualche angolo di campo Santa Marghe, immagino fiumi di parole e la sensazione di aver trovato qualcuno con cui poter parlare di tutto, davvero.

Hanno le mani nell’Arte e molta curiosità, si pongono domande e cercano assieme le risposte.

La loro amicizia, nata tra le calli, cresce sui social, e piano piano si accorgono di come la parola ANSIA sia spesso usata dai loro coetanei, nei meme e nei modi di dire, avere l’ansia sembra essere quasi una moda o forse è il sintomo di qualcosa di più pervasivo e serio.

ANSIA

Fine febbraio 2020, nessuna pandemia in vista, un viaggio in treno e un’idea in testa.

Perché non raccontare, attraverso un film on the road, questo fenomeno.

Film on the road, docufilm, videodiario e poi cinefiction, in due non è facile organizzare una produzione e la pandemia mette i bastoni tra le ruote. Ma non si fanno fermare, dedicano il loro tempo alla ricerca, allo studio, alla scoperta di quello che è ansia.

Vogliono fare un prodotto di qualità, rendere giustizia, essere leggeri si, “niente supercazzole” sottolinea Giulio, vogliono creare un prodotto di qualità.

Vogliono farlo con i millennials come protagonisti, per questo quando cercano un esperto da intervistare si rivolgono a giovani come loro o poco più grandi. Sarebbe difficile spiegare e farsi spiegare un fenomeno che non si è vissuto pienamente.

I “boomer” sanno forse dare una definizione da manuale dell’ansia, ma la percepiscono e la vivono in un modo molto diverso da noi, quando descrivono il giovane ansioso ne riportano un immagine stereotipata e spesso dispregiativa. L’ansia però non è solo un ragazzino che suda e si agita prima di dare un esame. La nostra ansia pervade la vita, rimane per mesi e spesso fatichiamo a trovare una sola causa e quindi a combatterla. Confrontarci con la generazione dei nostri genitori, chi non l’ha mai fatto alzi la mano e vi vedo che non siete molti, non ci fa affatto bene!

I nostri genitori sono nati e cresciuti in un mondo ricco, che prometteva e dava, hanno sempre saputo che studiando, impegnandosi e lavorando sarebbero riusciti a raggiungere i loro obiettivi, era un mondo di famiglie del mulino bianco? Probabilmente no, ma non era poi così male. Noi invece, che siamo cresciuti con i loro miti ci siamo scontrati con un mondo sgretolato, dove l’impegno spesso non è ripagato, siamo una generazione di disoccupati che passano per fannulloni e sdraiati ma che spesso si ritrovano a non avere le occasioni e le possibilità per lavorare. Una generazione di ansiosi. Alice e Giulio si chiedono come sarà il mondo tra quindici o vent’anni quando sarà sulle nostre spalle.

Si domandano anche perché la letteratura sull’argomento sia scarna e molto settoriale, perché venga guardato da un solo punto di vista e non si analizzino le diverse sfaccettature e le conseguenze sui diversi piani. Sappiamo relativamente bene cosa comporti per una persona convivere con l’ansia, non sappiamo però cosa possa voler dire vivere in una società di ansiosi.

Chiacchierando con Alice e Giulio, improvvisamente, mi sento privilegiata, non è una sensazione nuova, ho ventitré anni e un lavoro che mi basta per mantenermi e vivere da sola, ho vinto la lotteria, è strano però sentirsi fortunati per qualcosa che dovrebbe essere scontato. Dovrei essere felice e contenta, come i giovani “esperti” che intervistano nel loro progetto, l’ansia non dovrebbe far parte delle nostre vite e invece la conosciamo anche noi e siamo tutti un po’ schiavi del confronto, ci sentiamo colpevoli se ci lamentiamo, consci di chi sta peggio di noi, non ci sentiamo in diritto di stare male, dopotutto, dicono i nonni, non siamo mica in guerra.

A chi dice che noi millennials guardiamo solo il nostro ombelico, dice Alice, rispondo dicendo che siamo la generazione del continuo confronto, tra i pari e con le generazioni più vecchie, un confronto che è un arma rivolta contro noi stessi, aggiunge Giulio, ci guardiamo intorno e spesso non troviamo il coraggio di lamentarci perché confrontiamo il nostro star male con quello degli altri sottostimandone la gravità, il peso e le conseguenze per noi, l’ altra faccia della medaglia, continua, è la banalizzazione dell’ansia, l’attaccare questa etichetta a qualsiasi situazione sgradevole fino a perdere significato di questo termine.

È un argomento intricato, ricco di spunti, se fossimo in quella piazza avremmo ordinato un altro giro, e saremmo rimasti a parlarne ancora. Siamo dietro un pc ma Giulio mi assicura che il link non scade e promette un’altra chiacchierata.

Per chiudere una domanda, la prima che avevo segnato nel quaderno mentre quest’intervista era solo un embrione e che ho scoperto essere LA domanda di chiusura di tutte le loro interviste.

Cos’è per te l’ansia?

A: Per me l’ansia è una compagna di vita, conosciuta all’università, a dir il vero avrei preferito non conoscerla, ma mi ha permesso di indagare su me stessa, di sfidarmi e di scoprirmi.

Con l’ansia ogni giorno è una sfida. Non l’ho ancora superata, ma la ringrazio perché mi ha reso migliore rispetto a come ero dieci anni fa. Ora imparo a conviverci.

G: Immobilismo, incapacità di agire, di gestire o progettare il futuro, mancanza di evoluzione. È usare le mie energie per pensieri negativi ed averne poche per andare avanti, non è immobilismo in generale, direi più un immobilismo verso il positivo, discorso complicato, quando sono in preda all’ansia sono in realtà più attivo, ma non è un’attività che mi fa bene, è negatività.

A: Buffo, abbiamo dato due risposte completamente opposte.

DI QUESTI TEMPI

Di Isotta Orlando

Zona rossa.

Battuta d’arresto.

Una nuova riflessione sul tempo, perso.

Sul tempo speso.

Sulla forsennata corsa alla produttività e sul tempo libero.

Ho sempre detestato chi mi chiede cosa faccio nel mio tempo libero, un po’ perché non ne ho mai avuto molto, un po’perché mi è difficile stabilire un confine chiaro tra tempo libero e tempo “occupato”, mi sono sempre chiesta se le ore passate tra schiamazzi e ginocchia scoperte in pieno inverno e quelle spese a organizzare le attività fossero il mio tempo libero.

No. Non lo era, era semplicemente il mio tempo, tempo da spendere, da vivere e da condividere.

A volte mi rendo conto di riempire troppo il mio tempo, di saltare senza soluzione di continuità da una parte all’altra della città, da un lavoro all’altro, spesso cercando di lavorare anche lungo il tragitto. Me ne rendo davvero conto solo ora che è sono anni che faccio così, da quando prendevo il treno per Venezia ogni giorno e sfruttavo ogni briciolo di tempo vuoto per studiare mentre i miei pomeriggi diventavano sempre più un tetris d’impegni. Me ne rendo conto ora, mentre attraverso una Udine quasi deserta dettandomi questo articolo tra gli sguardi allibiti dei pochi passanti.

Nei momenti più intensi nella mia agenda tenevo uno spazio per fare la doccia, per essere sicura di avere il tempo di farla.

E così ho accolto quasi con gioia la notizia del primo lockdown, finalmente del tempo solo per me, per le mie idee, i miei progetti per tutto quello che avevo fino ad allora procrastinato (e per la tesi, sicuramente scriverò la tesi).

Non mi sono annoiata quel primo lockdown e non ho nemmeno scritto la tesi, ma mi sono resa conto, finito quel periodo, di aver accumulato energia non spesa, voglia di rimboccarmi le maniche, avevo voglia di Fare. Di scrollarmi dal tempo letargico, di scuotermi ed impegnarmi. E qui arrivano i cavalieri della ma storia, Liberi Educatori, che hanno dato ascolto a questa mia muta preghiera, siamo scoiattoli iperattivi, non stiamo mai con le mani in mano. La mia mente frulla sempre e le idee e i progetti diventano sempre più reali.

Assieme impariamo a dare il giusto tempo, il ritmo adatto, perché l’educazione è un insieme concatenato di azioni che hanno bisogno del momento adatto. Di tempo per accogliere e ascoltare, di tempo per scrivere e progettare e di tempo per fare, per dare risposte. È necessario dedicare ore o minuiti anche a riflettere, a rielaborare ciò che viene vissuto, mettendolo in ordine prima di assimilarlo.

È ormai mal comune lamentarsi del tempo perso, appioppando così un altro interessante aggettivo al ticchettare delle lancette. È vero il tempo è una risorsa, come tale va sfruttata, ma proprio come ogni risorsa non può e non deve essere spremuta al massimo, sembrerà incoerente con quello che ho detto fino ad ora, ma il mondo ha bisogno di tempo perso, di tempo per perdersi, di sana pigrizia, quella che fa venire le idee mentre i piedi camminano senza una meta prestabilita.

In un mondo che ci chiede di risucchiare tutte le risorse che ci circondano è un atto rivoluzionario cercare di perdere del tempo, di non metterlo a disposizione del mercato, di prendercelo per noi o per donarlo agli altri, ma quando ti ritrovi a passare ore scrollando qualche social media, senza darti nemmeno il tempo di assorbire gli stimoli che hai davanti inizi a chiederti come fare per non perderne più, demonizzando ogni minuto che ti sembra poco produttivo. Ma è solo un campanello d’allarme quel lasciar passare le ore di fronte ad uno schermo, se l’ascoltassimo capiremmo cosa vogliamo dai nostri minuti preziosi, ciò di cui abbiamo bisogno per riempire quei sessanta secondi di valore.

E mentre ci arrovelliamo sulle sfumature dei suoi significati il tempo, quel concetto intangibile e concreto, inesorabile scorre ed è già una nuova primavera.  

Una primavera chiusa in casa. Una primavera per trovare il nostro ritmo.

Tra le sbarre

di Isotta Orlando

Ma cosa fa un’educatrice tra le sbarre?

L’ educatrice della Medicina Penitenziaria si occupa della gestione dei singoli casi e delle richieste fatte dai detenuti spesso inerenti la burocrazia. Da quando il cappellano del carcere ha dovuto per problemi di salute abbandonare il suo posto in prima linea, molta della burocrazia che seguiva viene ora gestita dall’educatrice.

Le richieste dei detenuti sono varie e vanno dall’ aiuto nella compilazione dei documenti per il riconoscimento dello stato di famiglia al rinnovo della patente, uno dei punti cruciali dell’educatore è il riuscire a fare da ponte tra uffici ed istituzioni esterne e l’istituzione del carcere.

Così nelle ore in cui l’educatrice è in carcere prende in consegna le varie richieste e una volta fuori inizia la coda infinita davanti agli sportelli dei diversi uffici, la litania di telefonate ai Comuni e ai patronati dove molto spesso appena scoprono che lavora per il carcere le richieste vengano rimpallate da una parte all’ altra senza che nessuno dia una risposta concreta alla problematica, venendo spesso trattata come se fosse lei stessa una carcerata.

Tra una fila alle poste per un vaglia da spedire a detenuti espulsi contenente il loro ultimo stipendio e una coda negli uffici del comune per il rinnovo della carta d’identità mi sono chiesta quale fosse la ragione di tutto questo prodigarsi, la risposta mi sarebbe arrivata poco dopo proprio durante i primi colloqui con i detenuti, l’ educatrice usava come una scusa per iniziare una relazione e creare un rapporto di fiducia tutta la burocrazia, e grazie a questa impostare un dialogo educativo basato sulle risposte concrete alle necessità dei detenuti e una volta ottenuta la fiducia riuscire a sviluppare anche argomenti più strettamente legati alla sua professione. E proprio così è riuscita ad agganciare diverse persone che anche una volta uscite dal carcere hanno mantenuto con lei il dialogo.

Non sempre però la sua funzione viene riconosciuta, soprattutto tra i detenuti italiani che hanno già una propria rete di supporto fuori è difficile per l’educatrice riuscire ad instaurare una relazione costruttiva.

Le difficoltà all’ interno del carcere sono molteplici e l’educatrice della Medicina Penitenziaria le conosce da vicino attraverso i colloqui svolti assieme ai detenuti che fidandosi di lei le raccontano le complicazioni della loro vita quotidiana.

Molte di queste derivano dal sovraffollamento, oltre alla gestione della quotidianità in spazi molto ristretti che incide spesso sull’agitazione e aggressività generale che culmina, soprattutto all’interno della sezione del giudiziario, in svariate risse e colluttazioni.

Legata al sovraffollamento c’è la difficoltà a trovare un lavoro, ci sono lunghi tempi di attesa per trovare un’occupazione all’ interno delle mura del penitenziario e i soldi sono una necessità per i carcerati sia per poter vivere dignitosamente all’ interno del carcere dove ogni extra costa molto più che all’ esterno ma anche per contribuire al mantenimento delle loro famiglie all’ esterno.

Il lavoro intramurario segue una turnazione che dovrebbe permettere a tutti i detenuti che ne fanno richiesta di avere un’occupazione ma questo non basta perché nei periodi di maggior affollamento le richieste sono molto maggiori rispetto alle mansioni proposte e solo pochi possono avere l’opportunità di svolgere un lavoro al di fuori delle mura del carcere attraverso le proposte di cooperative ed associazioni.

Tra le altre problematiche della vita carceraria è impossibile non citare gli episodi di autolesionismo, cardine dell’equipe settimanale assieme alla prevenzione suicidaria, questi eventi, pur non seguendo un andamento costante, ed essendo quindi imprevedibili, sono sempre presenti con diversi tassi di incidenza a seconda del periodo.

Nella maggior parte dei casi questi gesti, in genere tagli superficiali, sono più che altro dimostrativi, legati a domande dei detenuti come l’aumento della terapia o ad altre richieste difficili da esaudire, come il trasferimento in istituti più vicini alle famiglie. In ogni caso tutte le persone vengono attenzionate e messe sotto osservazione per un periodo perché anche se solamente dimostrativo o funzionale un gesto simile è comunque indice di profonda sofferenza ed incapacità di affrontare le difficoltà quotidiane.

Inclusione sociale a basso impatto sulla comunità locale

Testimonianza di un’accoglienza possibile nel territorio della provincia di Bologna

12 gennaio 2021 di Simone Varesano

Oggi in Italia, affrontare discorsi sull’accoglienza di migranti e richiedenti asilo risulta quanto mai complesso, a causa di diversi fattori: primo fra tutti la persistente strumentazione politica che circonda la tematica, oggetto di discorsi connotati da forti componenti ideologiche che inficiano sulla qualità delle affermazioni e delle argomentazioni esternate dai protagonisti della politica tutta (senza distinzione di appartenenze politiche), dando vita a dibattiti sterili che a nulla portano se non alla costituzione di “tifoserie” contrapposte.

Viene quindi riportata la testimonianza di un’esperienza di tirocinio svolta presso una struttura SPRAR (il Sistema di Protezione per Richiedenti asilo e rifugiati, istituito ai sensi della legge 189/2002, ora sostituito con l’istituzione, ai sensi del DL. 113/2018, convertito in L. 132/2018, del Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per minori stranieri accompagnati, SIPROIMI) nel territorio della provincia di Bologna, più precisamente nel Comune di Galliera.

“Casa Galliera” nasce inizialmente come centro di accoglienza speciale (CAS) di seconda accoglienza, per volontà di Don Matteo Prosperini, parroco della Chiesa dei Santi Vincenzo e Anastasio a San Vincenzo di Galliera: avendo a disposizione le sale parrocchiali, l’obiettivo intrapreso è stato quello, appunto, di fornire un aiuto sostanziale a favore di richiedenti asilo e rifugiati provenienti dagli Stati dell’Africa subsahariana, arrivati in Italia seguendo le rotte migratorie del Mediterraneo. Per il funzionamento della struttura, il servizio è stato poi attuato attraverso la presa in carico del progetto da parte della cooperativa sociale “La Piccola Carovana”.

La particolarità di tale esperienza sta nella configurazione che è andata assumendo nel corso del suo sviluppo: in particolare, l’equipe di lavoro, costituita dal coordinatore Damiano Borin e gli operatori Roberto Bartilucci e Angela Assinelli dipendenti della cooperativa, insieme a Don Matteo, hanno attivato sin dalla costituzione dello SPRAR una modalità di lavoro reticolare, attraverso un coinvolgimento della comunità locale, in primis i fedeli della comunità parrocchiale. Hanno quindi avuto coscienza del possibile impatto del progetto sulla popolazione residente, considerandola quale destinataria stessa del loro agire professionale, oltre naturalmente ai beneficiari stranieri.

Pertanto, l’implementazione dell’accoglienza si è svolta su più piani, diversi ma tra loro interconnessi:

essere operatori SPRAR includeva un lavoro sul contesto globale in cui si andava operando, sapendo che la costruzione di legami solidi con gli enti comunali, la popolazione e i servizi costituisse un requisito fondamentale per la buona riuscita del progetto.

Sono state organizzate varie assemblee ove i residenti potevano esporre i loro dubbi, le loro perplessità e ricevere risposte adeguate dagli stessi operatori, i quali, a loro volta potevano presentare il loro lavoro, il progetto di intervento nella sua complessità, o anche solo rassicurare la popolazione in merito alle preoccupazioni che naturalmente emergono nel momento in cui si assiste ad un cambiamento che può incidere fortemente sul contesto di vita di un piccolo comune di circa 5000 abitanti.

A ciò si sono aggiunti momenti di pura convivialità, come cene collettive o anche feste di compleanno dove gli stessi beneficiari si sono messi a disposizione dei partecipanti, preparando cene etniche con pietanze tipiche dei loro paesi di origine: è stato grazie a questi momenti che è avvenuta la conoscenza diretta e quindi il raccordo tra ospitati e ospitanti,


dando vita e successivamente consolidando quello che si può definire il “buon rapporto di vicinato”;

non sono mancati esempi, infatti, in cui alcuni residenti appartenenti alla fascia più anziana della popolazione si sono affezionati ai beneficiari del progetto SPRAR, instaurando un rapporto di mutuo aiuto ove i secondi si rendevano disponibili nell’aiutare i primi a fare la spesa, e viceversa i primi invitassero a pranzo i secondi .

A ciò si è aggiunto un lavoro attento da parte degli operatori (anche grazie alla scelta di optare per un basso numero di beneficiari da accogliere, pari a dodici) sul percorso di realizzazione personale dei loro utenti: in un’ottica di collaborazione e co-costruzione dei progetti esistenziali di ciascuno, è stata possibile l’attivazione di tirocini retribuiti nell’ambito della manutenzione del verde pubblico, a partire però dalla partecipazione dei richiedenti asilo in progetti di volontariato, in modo che gli stessi maturassero un senso di cittadinanza attiva che li portasse innanzitutto a spendersi, in termini di attività e competenze da mettere in gioco, per la comunità ospitante. Da qui, è stato poi possibile sviluppare i loro percorsi in ottica anche più propriamente professionale, accompagnati dalla frequenza di tutti i beneficiari a corsi di lingua italiana presso il CPIA (Centro provinciale per l’istruzione degli adulti), sito in un comune adiacente a Galliera.

Il lavoro svoltosi a “Casa Galliera”, dal raccordo con la comunità locale all’attenzione dei progetti esistenziali dei beneficiari, sicuramente non può considerarsi un caso esemplificativo di tutto il panorama nazionale dell’accoglienza:

può essere però utile nel dimostrare quanto questa non sia un obiettivo utopistico, quanto piuttosto un settore del sociale ancora acerbo,

soggetto sì a difficoltà, contraddizioni, carenze e inefficienze, ma allo stesso tempo vittima, ad oggi, di una modalità di approccio istituzionale di carattere ancora emergenziale (protrattosi ormai da oltre trent’anni), affidandosi quindi soltanto alla buona volontà dei singoli attori che vi si impegnano. Ciò non consente lo sviluppo di metodologie operative solide, approcci programmatori sistemici che consentirebbero un raggiungimento generalizzato dei risultati ottenuti a Galliera.

Le condizioni strutturali del mondo globalizzato, la contiua connessione tra le nazioni di tutti i continenti impongono tale approccio, affinchè l’immigrazione non sia più da considerarsi quale emergenza che determina oneri e spese, quanto piuttosto una reale opportunità di sviluppo, senza abbandonarsi a retoriche umanistiche sterili fini a sè stesse.

Riflessioni sparse in mezzo al caos

22 dicembre di Isotta Orlando

Siamo Educatori ma siamo anche esseri umani e ognuno di noi è stato toccato da questa pandemia in modo diverso, ci siamo chiesti che fare, abbiamo avuto paura e abbiamo cercato speranza, non sempre siamo riusciti a stare fermi quando intorno le cose sembravano peggiorare ogni giorno di più. Trovare lo spazio e il tempo per far guardare negli occhi l’Educatore e la Persona che convivono dentro di noi permette una riflessione, rende possibile trovare un equilibrio tra la dimensione emotiva e quella professionale. E non sempre è facile mettere d’accordo pancia, cuore e cervello, ma dobbiamo farli dialogare per capire noi stessi prima di entrare in relazione con gli altri.

Tre voci, simili e diverse hanno fatto capolino nel dialogo e ve le riportiamo per farvi capire come ognuno di noi abbia guardato il mondo in modo diverso in questi mesi.

C:

Cosa succede quando il mostro esce da sotto al letto?

Tutti sanno che c’è. Qualcuno lo ignora, qualcuno ne parla, nessuno lo sconfigge, è una presenza costante.

Per tutta la vita cerchi di prepararti al momento in cui salterà fuori.  

Torce, canzoni, magari una mazza da baseball accanto al comodino, ma è una paura primordiale. Abbiamo ereditato la storia del mostro sotto al letto, la Madre di tutte le paure, dagli uomini primitivi sotto al cui albero giravano affamate le fiere, saltavano fuori di notte ringhianti e con gli occhi brillanti.

Quella era una paura fondata. Le zanne erano veramente pochi metri sotto al ramo, gli artigli grattavano davvero contro il tronco e le bestie erano davvero affamate.

Facendosi un po’ di coraggio si può andare a vedere sotto al letto, ci sarà qualche batuffolo di polvere, forse un calzino dimenticato, ma sicuramente non ci sarà un mostro. Allora dov’è?  Nulla di più facile. È dentro di noi. Allora come si combatte?

Da un po’ di tempo mi ripeto una filastrocca, che forse sta stancando anche me, “voglio essere la migliore versione di me stessa” questo vuol dire nel concreto essere determinata, smettere di procrastinare, affrontare le paure.

Va tutto bene, finchè il mostro non esce da sotto al letto.

Tamponi positivi, sia il mio che quello di mia mamma. Io asintomatica, mamma allettata con febbre e tosse, in una casa di 60 metri quadri e un bagno. Sento il peso della responsabilità e non riesco a tirarmi su. Ce la faccio per poco, ma poi crollo di nuovo nella realtà della situazione.  Fin dove può arrivare la sopportazione? Non è un dolore fisico il mio, “se è intenso è di breve durata”.  È più subdolo “se dura a lungo è sopportabile”. Lo senti nelle ossa, incurva la schiena, abbassa gli occhi, i piedi sono pesanti e strisciano a terra. È un momento difficile e ai momenti di preoccupazione in cui si igienizza qualsiasi superficie, si alternano i momenti di paura.

Il mostro è uscito da sotto al letto.

Per tutta la vita cerchi di prepararti al momento in cui salterà fuori,

ma non sarai mai pronto.

I:

Il Covid è sempre stato di casa, già a gennaio quando mamma ha iniziato a ricoverare giovani con strane polmoniti, sebbene nessuno le desse ascolto e le linee di prevenzione fossero inesistenti. Poi è entrato con fermezza in casa, era inevitabile, un mese senza varcare il cancello, come tutti gli altri ma con la preoccupazione che quel virus arrivasse ai polmoni malmessi di papà, con mamma chiusa nella sua camera, con guanti, mascherine e candeggina che sono diventati routine.

E notizie spesso contrastanti, confusione e forse anche paura, mi aggrappavo a piccoli obiettivi, cercavo soluzioni creative alla noia, guardavo il futuro annebbiarsi sempre di più, spesso mi trovavo in lacrime senza sapere perché. Ho smesso di aprire i giornali e i social, mi sono chiusa in una bolla che scoppiava ogni volta che arrivavo a tavola, Zaia ci ha fatto compagnia ad ogni pasto, con catastrofici numeri e misure per arginarli, non oso immaginare cosa abbiano immaginato i bambini che hanno visto disgregarsi il mondo attorno a loro, io ho pensato che il mondo stesse definitivamente andando a rotoli.

Senza via d’uscita,

così si sentiva la mia migliore amica, ed io impotente la imploravo di resistere un giorno in più, sentendomi inutile dall’altro lato del telefono, cercando di convincerla a chiedere aiuto a qualcuno che oltre alla professionalità potesse avere quell’oggettività che a me mancava. Mi chiedevo se i centri di salute mentale avrebbero avuto risorse per rispondere a tutti quelli che come lei si sentivano mancare la terra sotto i piedi, immaginavo l’aggravarsi di diverse problematiche e nel mio cervello ormai deviato da deformazione professionale mi chiedevo fino a dove la tutela della salute fisica potesse incidere sulla salute mentale.

Poi, finalmente, l’estate, e lo sforzo di tornare ad una normalità che sembrava come nascondere la polvere sotto il tappeto, con la consapevolezza che sarebbe uscito ai primi freddi, che non avremmo dovuto dimenticarcene così in fretta. Le continue raccomandazioni di mamma si trovava ancora di fronte a persone ammalate nonostante il mondo fosse tornato in vita.

E poi di nuovo chiusure, regole, igienizzante e tamponi. E Paura, con la P maiuscola, perché non si riesce a vedere la fine, perché ci aggrappiamo a piccole speranze quotidianamente disattese, perché ogni giorno il nostro futuro si fa meno definito, perché nonostante gli sforzi di ognuno sembra che il mondo per come lo conosciamo non possa tornare come prima. E invidio tutti quelli che riescono ad avere ancora speranza nel cuore, sarà che mi circondo di cinismo ma non riesco a provare a me stessa il senso di ottimismo che una volta era ben radicato in me.

Ci è passato troppo vicino per poterlo ignorare, ma ogni giorno sorrido ai bambini da sotto la mascherina, cerco di dargli la massima libertà ricordandogli però le nuove regole che incidono sui i loro corpicini e sulle loro menti in costruzione.

ogni giorno sorrido ai bambini da sotto la mascherina, cerco di dargli la massima libertà ricordandogli però le nuove regole che incidono sui i loro corpicini e sulle loro menti in costruzione.

Come saranno questi adulti di domani, alcuni di loro, si vede già, portano dentro ansie enormi, grandi come case che lasciano noi adulti atterriti e quasi incapaci di fronteggiarle.

Dobbiamo imparare un nuovo modo di relazionarci; dobbiamo ricominciare da capo e nel nostro lavoro di cura e relazione dove spesso un tocco vale più di mille parole, dove un abbraccio può aggiustare, dove le strette di mano, gli sguardi e le rughe del viso aiutano chi ci sta di fronte a fidarsi di noi;  dobbiamo trovare un linguaggio nuovo, un nuovo modo di prenderci cura.

Non è facile ridimensionare le proprie azioni, sentirsi bloccati da nuove regole, sapere quanto queste intralcino ancora di più la vita già complicata di chi incontriamo nel nostro lavoro. Dobbiamo essere forti per loro, poi torniamo a casa, chiudiamo la porta e ci sentiamo minuscoli ma siamo pronti a lavare via le preoccupazioni, ad attuare strategie per non perderci in vicoli ciechi e bui per poter tornare a lavoro con il sorriso e la speranza il giorno dopo.  

A:

L’Educatore è la figura di riferimento proprio per le competenze nell’accogliere i problemi della persona e guidarla in pratica ad una risposta che sia personale e adeguata.

Gli Psicologi fanno altro, si occupano di identificare i meccanismi per cui una psiche funziona dando quelle risposte. Gli psicoterapeuti supportano la stabilità psichica, non la quotidianità. I medici identificano e gestiscono le patologie mentali che hanno bisogno di farmaci o terapie mediche, chiaramente

l’educatore non può lavorare da solo, ma non confondiamo i compiti e ricordiamoci che siamo noi che diamo le risposte quotidiane, pratiche,

maledette ma benedette per le persone che ancor prima di identificare il meccanismo che sta dietro hanno bisogno di una risposta pratica. Non facciamo nulla da soli, ma possiamo fare tantissimo, anche “solo” raccogliere le tensioni e dar loro un impianto logico da poter affrontare.

La comunicazione non violenta: parole come carezze non come pugni

17 novembre 2020 di Ilaria Pala

Premessa:

Generalmente, la comunicazione non violenta, si può definire come una forma comunicativa strategica, applicabile in contesti personali, sociali e lavorativi, utile a mediare e poi a risolvere conflitti in corso, utilizzando varie modalità non riconducibili alla violenza fisica e verbale, scegliendo di conseguenza la via della NON VIOLENZA, anche se, come vedremo più avanti, è molto di più di questo.

La non violenza, consiste nell’adottare un atteggiamento positivo che sostituisce gli atteggiamenti negativi che delle volte sovrastano noi stessi e la situazione.

Certe volte, quando ci si trova in situazioni che implicano dei conflitti, che sia in contesti lavorativi o personali, la tendenza è agire in modo egoistico, pensando dunque esclusivamente all’agire in funzione dei propri bisogni e necessità, credendo che questa sia la scelta migliore da fare, per sé stessi e per risolvere il conflitto.

Ora, provate a immaginare questa situazione: Siete un direttore/direttrice di un’orchestra sinfonica e dovete far sì che ogni strumento suoni le note giuste per creare la sinfonia. Cosa succederebbe se, ogni musicista seguisse il proprio volere e cambiasse le note, suonando quel che più lo aggrada? Esatto, la melodia sarebbe compromessa.

In situazione di conflitto dunque, è necessario smettere di pensare in modo individualistico, mettendo in pratica i precetti della comunicazione non violenta, che aiuteranno a migliorare noi stessi e la società in generale.

Marshall B. Rosemberg: I precetti fondamentali della comunicazione non violenta.

Quando si parla di comunicazione non violenta, il primo professionista a cui si fa riferimento è Marshall B. Rosemberg: è stato un importante psicologo clinico, direttore dei servizi educativi del The center for nonviolent communication, un’organizzazione internazionale che offre ancora oggi dopo la sua morte nel 2015, seminari sulla comunicazione non violenta.

Il testo più importante scritto da Marshall sulla comunicazione non violenta è:


Le parole sono finestre, oppure muri- introduzione alla comunicazione non violenta.”

In questo volume, Marshall sostiene che una comunicazione di qualità, con se stessi e con gli altri, è ad oggi, una delle competenze più preziose.

La comunicazione non violenta si basa su abilità di linguaggio e di comunicazione che rafforzano la  capacità di rimanere umani, anche in condizioni difficili.

Il suo scopo principale è quello di far ricordare che gli uomini sono esseri sociali, fatti per relazionarsi tra loro, aiutando così a vivere in un modo che è poi la manifestazione concreta di questa necessità.

La comunicazione non violenta ci guida nel ripensare le modalità mediante cui si esprime sé stessi senza dimenticare di ascoltare gli altri: ci si esprime liberamente rispettando allo stesso tempo gli altri, con attenzione ed empatia, ascoltando i nostri bisogni profondi, uniti a quelli dei nostri interlocutori percependo in nuovo modo la relazione.

 Secondo Rosenberg, la comunicazione non violenta promuove l’ascolto e non lo scontro: il rispetto, attenzione ed empatia generano un bisogno reciproco di dare amore non pensando alla violenza o ad uno scontro verbale e fisico.

Non si parla dunque esclusivamente di un processo di comunicazione, o di un linguaggio di empatia, la comunicazione non violenta è di più: essa sollecita continuamente a concentrare la nostra attenzione su un piano diverso, dove è più probabile che si ottenga quel che si sta cercando.

Rosenberg intende la comunicazione non violenta come un modo per focalizzare la propria attenzione in modo tale che si accenda la luce della consapevolezza sui luoghi che hanno il potenziale di portare esattamente a quello che si sta cercando in quel momento; usando le parole stesse dello psicologo:


“Quello che desidero nella mia vita è l’empatia, uno scambio continuo tra me e gli altri basato su un reciproco darsi dal cuore”.

Come applicare la comunicazione non violenta: le quattro componenti principali.

Secondo Rosenbeg, per applicare correttamente la comunicazione non violenta e per arrivare ad un desiderio reciproco di “dare dal cuore”, si deve focalizzare la propria consapevolezza su quattro aree specifiche che si identificano come le quattro componenti principali della comunicazione non violenta.

Sono:

  • OSSERVAZIONE: In primis, occorre osservare una data situazione o persona senza introdurre alcun giudizio o valutazione. Si dice semplicemente quello che gli altri stanno eseguendo in quel dato momento senza introdurre commenti personali.
  • SENTIMENTI: Solo in questo secondo momento si afferma quel che l’osservazione ha scaturito a livello personale, come ci si è sentiti osservando questa situazione, se tristi, felici o anche spaventati.
  • BISOGNI: Nel terzo passaggio, si verbalizzano i bisogni personali emersi collegandoli ai sentimenti e alle emozioni precedentemente descritte.
  • RICHIESTE: Nel quarto e ultimo passaggio si dichiara e specifica la propria richiesta, ossia quel che si vuole dall’altra, o altre persone coinvolte, un elemento che potrebbe arricchire la propria vita.

Parte della comunicazione non violenta, consiste nell’esprimere queste quattro componenti in modo chiaro, verbalmente o in forma scritta.

Un secondo aspetto della comunicazione non violenta riguarda invece la ricezione delle medesime informazioni da parte delle altre persone coinvolte nel processo comunicativo: tutti devono seguire correttamente il procedimento, così che si abbia un’osservazione comune della situazione, un’espressione sincrona dei propri sentimenti e successivamente dei propri bisogni e delle richieste personali, arrivando a comprendere come risolvere un eventuale conflitto in corso e alle modalità con cui si può arricchire a vicenda la propria vita.

E’ importante sottolineare che, tutte le persone coinvolte in questo processo debbano esprimere onestà nella pratica dei quattro componenti ( ad esempio una persona dovrà essere onesta nella verbalizzazione dei propri sentimenti, altrimenti sarà introdotto nel processo comunicativo una componente falsata) e successivamente ricevere con empatia tutte le informazioni ricevute con il procedimento.

La comunicazione violenta: tutto quello che non si deve fare.

L’empatia, è una condizione umana importantissima, che assume la stessa importanza anche nel campo della comunicazione non violenta. Occorre dunque preservarla, riconoscendo a pieno, per poi evitare di utilizzarle, forme comunicative tossiche per l’empatia stessa e per la comunicazione non violenta.

Secondo Rosemberg, queste forme di linguaggio e di comunicazione sbagliate sono:

  • I GIUDIZI MORALISTICI: Questo tipo di comunicazione aliena dalla vita, perché i giudizi moralistici, perché essi implicano il torto o la cattiveria di quelle persone che non agiscono in armonia con i nostri valori.

Ad esempio, se si dice ad un’ altra persona “Il tuo problema è che sei troppo pigro, non hai voglia di fare niente” la si incolpa, etichetta, insulta, la si critica e in modo implicito la si mette a paragone con altri. Tutti questi giudizi messi attivati faranno sì che la forma di comunicazione adottata non potrà essere non violenta, perché i precetti fondamentali di quest’ultima non sono stati eseguiti, tanto meno l’empatia non potrà essere messa in pratica da una persona che si è sentita giudicata in questo modo.

  • FARE PARAGONI: Un’altra forma di giudizio è l’uso di paragoni. Non appena si comincia ad equiparare una persona ad un’altra, è quasi certo che una delle due o entrambi saranno infelici.

Facciamo un esempio: Un bambino della scuola materna che ha avuto comportamenti non adeguati al contesto, La maestra, lo riprende a fine giornata davanti a tutti la classe dicendo che lui non è stato un bravo bambino, paragonando lui agli altri compagni che invece hanno seguito le regole.

Quali potranno mai essere le conseguenze di queste affermazioni della maestra? Certamente il bambino si sentirà mortificato e giudicato negativamente, si sentirà sbagliato rispetto ai compagni di classe.

Anche in questo caso, è ben chiaro che  e i precetti della comunicazione non violenta siano venuti meno e che una risposta empatica non sia eseguibile in date circostanze.

  • NEGAZIONE DELLE PROPRIE RESPONSABILITA’: Un altro tipo di comunicazione che aliena dalla vita è la negazione delle responsabilità. Questa offusca la consapevolezza del fatto che ciascuno sia responsabili dei propri pensieri, sentimenti e azioni. Un esempio eclatante è quel che si verifica quando si pronuncia la frase: “ Ci sono cose che si DEVONO FARE, è così e basta”. Ecco, con quel “ SI DEVE”, si oscura la responsabilità personale delle proprie azioni, perché ci si sente obbligati nell’eseguire un data azione, togliendo anche la libertà di pensiero e di libera scelta riguardo alla possibilità di compierla o no.

Anche questa, è identificabile come una forma violenta di comunicazione, alla quale occorre privilegiare un linguaggio che implica una possibilità di scelta e in cui si è responsabili delle proprie scelte.

Conclusione:

In questa breve panoramica della comunicazione non violenta, è emerso che essa non obbliga ad essere completamente obiettivi e ad abolire ogni giudizio, chiede di separare le osservazioni dalle valutazioni personali ( questo è un passaggio fondamentale per chi svolge un ruolo educativo).

La comunicazione non violenta è un linguaggio di processo che scoraggia, scrive Rosenberg, le generalizzazioni statistiche e ci invita a fondare le valutazioni su osservazioni specifiche per quanto riguarda il tempo e il contesto.

Tutto quello che è stato scritto fino ad ora, si riassume in queste meravigliose parole di Rosemberg:

Posso sopportare che tu mi dica

Quello che ho fatto e quello che non ho fatto.

Posso sopportare le tue interpretazioni.

Ma ti prego di non confondere le due cose.

Se vuoi complicare qualsiasi questione

Ti posso dire come puoi fare:

Confondi quello che faccio

Con il modo in cui tu reagisci.

Dimmi che sei frustrato

Per i lavori che non porto a termine

Ma chiamarmi irresponsabile non è certo un modo per motivarmi.

E dimmi che ti senti triste

Quando dico di no alle tue proposte,

Ma dirmi che sono freddo e insensibile

Non aumenterà le tue possibilità.

Sì, posso sopportare che tu mi dicaQuello che ho fatto e che non ho fatto.

E posso sopportare le tue interpretazioni.

Ma ti prego, non mescolare le due cose.

Quello che ho fatto e quello che non ho fatto.

Posso sopportare le tue interpretazioni.

Ma ti prego di non confondere le due cose.

Non mescolate le due cose ma osservate e non valutate.

BIBLIOGRAFIA: Rosemberg B. Marshall; Le parole sono finestre, oppure muri. Introduzione alla comunicazione non violenta. ;Esserci edizioni 2020.

Fantastica-mente

3 novembre 2020 di Ilaria Pala

 L’IMPORTANZA DELLA STIMOLAZIONE LA FANTASIA E DELLA CAPACITA’ CREATIVA NELL’INFANZIA AI TEMPI DEL CORONAVIRUS.

Premessa:

Con il termine fantasia, s’intende la capacità di rappresentarsi enti, situazioni e figure non presenti a livello censitivo; è un’abilità creatrice collegata strettamente al pensiero.

Con la fantasia, il bambino riesce a capire avvenimenti, fatti e circostanze della vita quotidiana trasformando la realtà in avvenimenti immaginari piacevoli.

Attraverso la fantasia, si sperimenta il processo emozionale, cognitivo che allena il problem solving: la capacità di analizzare situazioni problematiche per individuare e mettere in atto la soluzione migliore.

I giochi, in questo frangente, contribuiscono allo sviluppo emotivo del bambino, e la creatività in essi può esprimersi in diversi modi, perché essa è da considerare come un vero e proprio modo di pensare e può essere allenata, sviluppata e stimolata anche dall’ambiente.

Coltivare l’immaginazione come si farebbe con una bellissima piantagione di girasoli, equivale ad aiutare il bambino a sviluppare una flessibilità mentale che gli sarà utile per diventare un adulto emotivamente consapevole di sé, capace di comunicare le proprie emozioni e sensazioni.

Questi fattori, già importanti a priori, assumono un nuovo fondamentale ruolo nella situazione odierna, perché

i bambini stanno imparando nuove modalità di gioco e di relazione “imposte” da regole e vere e proprie leggi non violabili: quelle legate alla sicurezza e alla salute di tutti.

Oltre dunque a un importante aiuto psicologico ove richiesto per aiutare in bambini con evidenti difficoltà, ansia da prestazione nelle attività, difficoltà nel sonno, rifiuto parziale del cibo, ansie legate alla cura di sé; occorre trovare dalla pedagogia dall’ educazione tutto l’aiuto possibile, strutturando attività, laboratori, progetti incentrati su obiettivi che aiutino i bambini a imparare a superare le loro paure e a convivere la situazione odierna, scoprendo, o in alcuni casi, riscoprendo una facoltà importante: la fantasia.

Il metodo Bruno Munari: la creatività come antidoto all’apatia.

Per aiutare la stimolazione della fantasia e della capacità immaginativa nel bambino,  si comincia creando setting in cui i bambini siano liberi di creare, giocare e divertirsi liberamente, uno spazio sicuro dove potersi esprimere liberamente, le idee non vengono proposte dall’educatore, esse nascono dalla sperimentazione secondo il principio didattico “ non dire cosa fare ma come”.

In questo modo i bambini imparano a diventare indipendenti risolvendo in autonomia i problemi.

Questo precetto, è una delle basi del metodo di Bruno Munari, grande designer, artista e pedagogo  intuitivo.

Per lui, il laboratorio è un luogo di creatività e conoscenza, di sperimentazione e scoperta, ma soprattutto di autoapprendimento attraverso il gioco: è in sostanza il setting dal “fare per capire” in cui si costruisce il sapere. E’ luogo d’incontro educativo, formazione e di collaborazione tra i bambini stessi e l’educatore, in cui si sviluppa la capacità di osservare con le mani e con gli occhi per imparare a guardare la realtà.

 Un metodo basato sul fare dunque, nel quale tuttavia il bambino deve esercitare  quattro facoltà, che secondo Munari, permettono di sviluppare concretamente la capacità creativa.  Esse sono:

Fantasia: facoltà libera e indipendente che permette di pensare anche alle cose più assurde e impossibili, a quello che non c’era e che era ritenuto irrealizzabile.

Invenzione: facoltà che permette la realizzazione di un qualcosa di utilità pratica all’uomo accantonando il lato estetico (sostanza e praticità versus forma).

Immaginazione: Capacità di rendere visibile quel che la fantasia, invenzione e creatività pensano.

Creatività: Facoltà che permette di realizzare tutto quel che prima non c’era in modo essenziale e globale. E’ un’applicazione della fantasia che deve tenere conto degli elementi concreti dei problemi della sua realizzazione. Nella realizzazione del prodotto, è tenuto conto dell’estetica.

Per stimolare la creatività intesa come unione delle facoltà di fantasia ed invenzione, è necessario esercitare tutte queste, così che si possano creare relazioni e connessioni tra fantasia, conoscenza e realtà, relazioni inedite tra cose che esistono già e cose che non si vedono ma che sono immaginabili.

Così, la creatività è una facoltà fondamentale per il ben vivere, ben prima che i bambini e poi negli adulti, per questo deve essere esercitata nell’infanzia.

Per Munari, un adulto senza creatività, è una persona incompiuta e omologata, come un ingranaggio di una catena che si muove e compie azioni esattamente come i suoi simili prima di lui.

Un adulto non creativo, sarà dunque incapace di risolvere ed affrontare i problemi in autonomia, arrivando a chiedere ad altri un aiuto per farlo.

Creatività e plurisensorialismo: come funziona un laboratorio Bruno Munari

Un laboratorio Bruno Munari è un luogo di creatività e conoscenza, dove si gioca con l’arte e nel quale si stimola la creatività e progettualità del bambino.

La creatività di cui si parla è una qualità speciale dell’intelligenza, è ricerca dell’essenziale. Munari spiega che, così come l’artista è in costante ricerca delle condizioni che favoriscono la fantasia e la creatività, occorre fare in modo che il bambino memorizzi più dati possibili: la fantasia infatti nasce da relazioni che il pensiero stabilisce tra le cose che conosce. Bisogna aiutare i bambini a rimuovere gli stereotipi, stimolando e ampliando la loro conoscenza plurisensoriale..

Gli operatori, durante il laboratorio non parlano quasi mai, piuttosto “fanno“, stimolando la curiosità dei bambini che subito vogliono provare a fare: ed ecco che il bambino imita l’adulto.

Compito degli operatori, dice Munari è:

Dare ai bambini tutte le informazioni di tipo tecnico, sul come si fa a fare, senza dare loro temi già predisposti dagli adulti.

Non bisogna dare ai bambini un metodo, perché è giusto che si creino loro un proprio modo di fare. L’adulto può invece creare un setting ricco e stimolante, con ad esempio cartelloni colorati che forniscano informazioni visive relative all’argomento che s’intende esplorare. Un adulto che diventa una sorta di regista per guidare i suoi attori.

La comunicazione con i bambini deve essere ricca di indicazioni precise: invece di tante spiegazioni è preferibile utilizzare esempi visivi e con “azioni gioco”; con il gioco, dice Munari, il bambino partecipa globalmente, mentre se ascolta si distrae perché continua a pensare ad altre cose.

Il gioco strutturato poi, ha delle regole da rispettare, dice Munari: “ Ogni gioco ha le sue regole, il mio metodo insegna a rispettarle ma anche a trasgredirle permettendo così alle varie personalità di realizzare le loro varianti e quindi a fare agire le varie creatività”.

Uno dei punti di partenza per lo sviluppo del pensiero creativo è dato dalla consapevolezza della conoscenza plurisensoriale insita nei più piccoli: i bambini sono sperimentatori innati che cercano ed esplorano, sperimentano attraverso il gioco stesso, imparano e memorizzano.

Questi principi sono alla base della missione di Munari: progettare strumenti di gioco capaci d’aiutare i bambini a non smarrire il loro originario senso di curiosità verso il mondo.

Il sogno di Munari, riguarda la creatività diffusa come antidoto all’apatia sociale, che oggi potrebbe riguardare le nuove difficoltà dei bambini a ritornare al gioco e alla vita sociale di prima, promuovendo strumenti e giochi capaci di aiutare i bambini a non smarrire il loro originario senso di curiosità verso il mondo.

E l’educatore, per fare questo, ma ancor prima l’adulto, deve secondo Munari, far permanere in sé: la curiosità di conoscere, il piacere di capire e la passione di comunicare e condividere.

Occorre aiutare i bambini a non perdere la loro curiosità verso il mondo, non dicendogli cosa fare ma come farlo, stimolando ancora una volta la loro sperimentazione e voglia di conoscere, anche ad un metro di distanza e con una mascherina indosso.

Bibliografia:

Munari Bruno., Fantasia,Editore Laterza.,2017

Beba Restelli., Giocare con tatto., edizioni Franco Angeli, Le Comete., 2002

Cronache di un centro estivo

29 agosto 2020 di Silvia Capello

Oggi voglio raccontarvi del centro estivo.

Perché mai avrei pensato di sedermi sul divano e scrivere di bimbi e di storie, di magie e di vite vissute pulendo nasi gocciolanti, ridendo e consolando  loro e i piccoli, grandi drammi.

 Per questo lo faccio, perché non l’avrei mai fatto prima.

Per rispetto delle loro piccole identità, assegnerò loro una lettera al posto del nome.

“A”.

“A” è un bambino davvero intelligente per la sua età; spicca accanto agli altri, si interessa di tutto e assorbe le nozioni come una spugna.

E’ un po’ timido a volte, ma una volta che abbattuto il muro della timidezza, si rivela un’anima davvero nobile, altruista e dolce.


Ha gli occhi tondi tondi scuri, che sorridono di dolcezza, miele puro.

Dice sempre cose buone e non fa mai male a nessuno. Sempre a difesa degli altri mostrando le sue buone ragioni,spiegando ai bambini cos’è giusto. Il tutto con una gran delicatezza; non si mette in mezzo, sta spesso in disparte e pensa tantissimo,si perde nei suoi pensieri e sparisce per un po’. Costruisce cose, disegna,scrive, legge ad alta voce.

E’ il bambino che ha pensato di far ridere gli altri mettendosi le mutande sopra i pantaloni, rimanendo così tutta la mattina, spiegando  agli altri come ha fatto,mostrando questa nuova moda.

E’ un leader autorevole che con i sorrisi e le carezze viene seguito fino in capo al mondo.

Noi lasciamo fare, perché loro si divertono, ridono, son proprio belli.  Non mi penserei mai di sgridare un bambino per aver messo le mutande sopra i pantaloni.

Beato divertimento, le risate sono il carburante della vita.

Lui è innamorato di “G” e le rivolge tutte le attenzioni del mondo. Chiede sempre di lei, le porta l’asciugamano, se ne prende cura come un dolce marito in vecchiaia. Lei ricambia con i suoi sorrisi e i silenzi infiniti.

“A” anche quando perde non si intristisce mai, non che sia un grande sportivo eh, fa il suo, gioca, ma se perde non porta rancore . E’ l’unico che ha la maturità di saper perdere divertendosi. Fa discorsi da adulto, a lui non devi parlare cercando di convincerlo di una cosa, perché è davvero sveglio e ti legge dentro. Vale la pena essere sinceri e accondiscendere a questa realtà che lui richiede. Detto fatto.

Ti rendi proprio conto che è un bambino come gli altri perché è  il dormiglione del gruppo: dopo pranzo sviene letteralmente in qualsiasi posto si trovi. Che sia la sedia a tavola, che sia l’asciugamano sul prato. Dopo pranzo si dorme. Punto.

Si avvicina al tavolo delle “maestre” , partecipa per due secondi e sviene.  Sta scomodo sulla sedia, allora di solito mi dorme in braccio, a peso morto, mortissimo. Dorme come un sasso, che posso portare in giro per tutto il giardino per poi adagiare sul prato, dove finalmente può rilassarsi del tutto e godersi il suo meritato riposo. Ovviamente veglio sempre su di lui, gli lascio il mio asciugamano che è più grande, così dorme comodo. Io sto seduta sul suo, dal quale mi escono mezze gambe. Ma va bene così, questo e altro per il riposo del mio topino.

Poi voglio parlare di “F”, che come tanti altri mi ha rapito il cuore.

F.

“F” è un bimbetto alto come un soldo di cacio e

con un sorriso che va da orecchio ad orecchio.

Porta gli occhiali e al momento gli mancano i due incisivi superiori ed uno inferiore. A detta sua è bruttissimo, ma io penso che sia come un personaggio dei cartoni animati, di una dolcezza unica, ed è bellissimo ai miei occhi.

“F” è una personcina proprio buffa, con una vocina che pare sia sempre fioco, specie quando fa gli acuti. Gli scivola la “s” a causa della finestra sul mondo che ha in bocca. Usa i plantari ai piedini e può indossare solo scarpe particolari; questo lo limita molto,perché spesso gli vengono  delle vesciche fastidiose e non può correre. E lui ama tantissimo correre!!

Al momento gli sto insegnando a fare la ruota e lui vorrebbe imparare ogni segreto del mondo! Vuole conoscere tutto, saper fare tutto e ci prova con una determinazione invidiabile.

E’ uno di quei bambini che non sopporta la frustrazione, che si avvilisce e si arrabbia quando sbaglia, va tutto in crisi, non ne esce. Per lui ogni errore è una catastrofe insormontabile,un ostacolo per la vita. Si mette le mani tra i capelli,impreca in calabrese, mette un broncio che gli arriva fino alle ginocchia, e gli occhi gli si riempiono piano piano di lacrimoni che gli bagnano il mento. Ma è un tipo che si lascia facilmente consolare, che ricerca un abbraccio o una carezza, che ama il contatto fisico in tutta la sua tenerezza ed innocenza. Ti guarda dal basso con quegli occhi di sole e allegria, si tira su il morale anche da solo, una volta che gli si fa vedere che il mondo, affrontato assieme fa meno paura;  si impegna nelle cose, mamma mia se si impegna! Ti chiama “ maestra”, ti dice che è riuscito a fare una cosa, che ha abbattuto il suo ostacolo ed è più forte di prima. Brilla tutto, non sta fermo, è elettricità, corre con la sua andatura buffa, mi viene a prendere la mano e la sua sparisce nella mia. Una manina un po’ appiccicosa, un po’ sporca , che racchiude il segreto della felicità del mondo in una stretta , un patto di fiducia non scritto. L’origine di tutto il bene.

“F”  è un bimbo che spesso si addormenta ascoltando le fiabe e l’altro giorno,rimasto assopito mentre gli altri bambini erano tornati a giocare, l’ho svegliato pian pianino per non fargli perdere il divertimento del pomeriggio. Si è destato  con la fatica di un eroe alla domenica mattina, non riusciva a tenere la testa su e mi ha teso le braccia al collo, con gli occhi ancora socchiusi.  Io, che mi sciolgo per queste cose, me lo sono preso in braccio stretto stretto, cullandolo in questo suo dormiveglia. Lui ha abbandonato la testolina sulla mia spalla, le braccia rilassate e si è appisolato.


In questa stretta così tiepida, piena di emozioni e profumo di cucciolo

mi sono resa conto che i bambini sono le persone migliori del mondo, che lui mi conosce da soli tre giorni e che mi ha affidato il suo sonno senza pensarci due volte. E mi domando come si possa fare del male ad una creatura così pura e genuina, ad un’anima che brilla in questo modo.  Perché agli occhi di un adulto può sembrare normale, ma non vorrei mai perdere di vista che noi li guardiamo, ci parliamo, a volte diamo loro per scontati, e comunque siamo e saremo il loro punto di riferimento, di fiducia. E loro sono bambini, nient’altro che meravigliosi bambini e noi dobbiamo prenderci cura di loro in quanto adulti e dar loro il nostro 100% sempre; è una nostra responsabilità far vedere che il mondo è bello, meraviglioso ed insegnare come viverci.

“F” mi ha rubato il cuore.