Superare i disturbi alimentari: imparare a piacersi giorno dopo giorno

29.05.2020
un’intervista di Cecilia Zecchini a Jessica



Si sente sempre più spesso parlare di disturbi dell’alimentazione, abbiamo voluto dare voce a Jessica, che ha vissuto questa situazione in prima persona. Soffre di binge eating da 8 anni, e questo periodo così particolare si è avvicinata a una soluzione.

I: Come si chiama e in cosa consiste il disturbo di cui eri affetta?

J: il disturbo si chiama Binge eating oppure disturbo dell’alimentazione incontrollata. Caratterizzato da episodi di abbuffata, si mangia una quantità di cibo maggiore della solita e molto velocemente senza riuscire a fermarsi. Mi capitava di mangiare senza freni, di essere così piena da non riuscire nemmeno a muovermi. Ho provato a fare un sacco di “diete fai da te” che si sono rivelate fallimentari, al raggiungimento del peso forma, tornavo a mangiare come prima. Andavo alla ricerca di gelati, patatine, dolci, sentivo proprio di averne bisogno per colmare un vuoto emozionale, al punto di uscire appositamente per comprare queste “schifezze”. Spesso mi capitava di abbuffarmi e per il senso di colpa continuare a mangiare.

I: Qual è stata la causa scatenante di questo problema? Sentiti libera di non rispondere a questa domanda.

J: La primissima volta che mi sono affacciata a queste abbuffate è quando ho smesso di ballare (era una ballerina agonista n.d.r.), ma riuscivo a tenerle abbastanza sotto controllo. Otto anni fa ho subito uno stupro e da lì non sono più riuscita a controllarmi. Ero sempre a disagio con il mio corpo, non riuscivo a specchiarmi e non mi interessava più di me stessa. Ero arrivata al punto di mangiare cibi ancora congelati. Quando ricevevo commenti negativi cercavo di risolvere con delle diete lampo, o con alimenti sostitutivi del pasto, senza risolvere mai effettivamente il problema. Ero anche iscritta in palestra, dove andavo per un mese per poi interrompere l’allenamento e ricominciare con la mia routine di abbuffate.

Mi capitava anche di alternare momenti di abbuffate a giorni di digiuni per punirmi.

Di solito mangiavo senza controllo da sola, cercando di non essere vista da nessuno. Un giorno però mio padre mi vide mentre cercavo di mangiarmi una torta ancora congelata.

I: Cosa ti disse tuo papà?

J: Mi disse che c’era un problema, mi portò da un terapeuta che però aveva un approccio per me sbagliato, rapportava tutto al sesso e questa cosa mi metteva molto a disagio. La terapia non funzionò.
Successivamente partecipai al Servizio Civile, il gruppo era seguito da uno psicoterapeuta che ci fece parlare dei nostri problemi, funzionò e mi sentii meglio, ma finita questa esperienza il problema si ripresentò.

I: Avevi già avuto problemi con il cibo?

J: Alle elementari ero molto magra, non mi andava di mangiare, rifiutavo il cibo. Non mangiavo nulla che non fosse yogurt fatto in casa o pasta in bianco. Non so perché, nessuno sapeva spiegarselo.

I: e durante l’adolescenza?

J: Alle superiori facevo la bulla. Avevo adottato un meccanismo di difesa per cui avevo un atteggiamento molto da dura, la gente aveva paura di me, mi vestivo in stile goth. A scuola non andavo bene, ma ho avuto una bella adolescenza, avevo tanti amici, un bel fisico grazie allo sport e il moroso. Durante l’adolescenza ho sofferto di attacchi di panico, ma non avevo nessun problema con il cibo, non mi piacevo fisicamente, ma non era un problema. A 16 anni ho avuto un infortunio e ho dovuto lasciare lo sport che per me era vita. Ho mollato anche la scuola e ho iniziato ad avere episodi sporadici in cui mangiavo ad esempio scatole intere di merendine, ma li attribuivo alla noia. Vedevo i disturbi dell’alimentazione molto lontani da me.

I: Hai ancora questo problema delle abbuffate?

J: Si, ma molto raramente. Riconosco la sensazione e cerco di controllarmi. Quando non riesco, mi concedo l’abbuffata, mangiando un’intera vaschetta di gelato alla soya. Durante la quarantena ero sola e ho avuto un “click”, mi sono stufata dell’etichetta di vittima che mi ero attribuita. Sono stata costretta a occuparmi di più di me stessa. Ho iniziato a comprare cibi sani, bere tisane e a fare sport per non annoiarmi.
La mattina mi sveglio presto, faccio yoga, mi sistemo e riordino la casa, vado a lavoro e nel pomeriggio faccio un allenamento HIIT (allenamento ad alta intensità n.d.r.). Credo che lo sport in primis mi stia aiutando ad affrontare il problema, in quanto lo reputo un ottimo anti-depressivo. Ho imparato a prendermi cura di me stessa e a vedermi meglio.
Adesso ho avuto la fortuna di incontrare una persona che crede molto in me e che vede oltre al mio fisico e questo mi fa stare bene.

I: Che tipo di aiuto avresti voluto?

J: Avrei voluto che chi era con me in quel momento mi capisse. Che qualcuno si accorgesse che il mio non era solo un “mi piace mangiare”, ma che era un vero e proprio grido di aiuto. Non so esattamente di che tipo di appoggio avrei avuto bisogno. Sicuramente avrei voluto essere compresa.
Mi sembrava di essere una drogata, adesso ho tolto completamente lo zucchero dalla mia vita, quelli che mi servono li assimilo dalla frutta, ma la prima settimana senza zucchero ero una larva, con frequenti mal di testa, ero sempre stanca.
La mia manna è stata trovare la terapeuta più adatta a me, che mi ha fatto fare un ragionamento giusto. Non ho ancora risolto completamente, ma non lo vedo più come un problema. Prima facevo fatica ad uscire, a mostrarmi, adesso ho perso 15 kili e sto imparando a piacermi. Mi guardo e mi piaccio.
Durante il lockdown sono uscita a buttare la spazzatura in canottiera, braghette corte e anfibi, mi sentivo una gran figa. Non mi interessava se si vedevano le mie curve, mi sentivo sicura di me.

Spero che questo articolo possa spingere chi soffre di disturbi dell’alimentazione a non vergognarsi e chiedere aiuto, prima che possa diventare un problema.

Educatori, ma non solo

di Sara Fievoli
22 Maggio 2020

Oggi volevamo raccontarvi di una storia differente.

L’ambito sociale, come si sa, affronta ogni giorno molte difficoltà specialmente in questo periodo in cui, oltre al lavoro con i nostri ragazzi, noi educatori ed altri operatori sociali dobbiamo pensare anche al contesto generale che sta affrontando la nostra società.

Una figura che in questo momento si sta dimostrando un braccio destro per noi in questo periodo di crisi, è il volontario. Nel suo atto di aiuto, anche lui a suo modo educa.

Un esempio ne è una volontaria presso un ente per la promozione alla carità, la quale svolge lezioni individuali di italiano per alcuni stranieri che usufruiscono di tale servizio. Con piacere vi lascio al suo racconto.

“Quando svolgevo le lezioni di italiano in aula utilizzavo come strumenti didattici delle schede e brevi video in stile cartone animato, in modo tale che fossero semplici ma efficaci nelle spiegazioni dei concetti più complessi: per esempio come porsi in un colloquio o come fare delle richieste ad un commesso.

Nel passaggio alle lezioni in videochiamata ho cercato di mantenere lo strumento del video, anche se mi sono resa conto che il vederlo senza la mia presenza fisica li poneva in un atteggiamento titubante, come se avessero una maggiore percezione della difficoltà del compito che gli richiedevo e ciò li spaventava. Per coloro che invece possiedono un livello di conoscenza più alto di italiano, si presentava lo stesso come un metodo didattico funzionale, ma al contempo non ugualmente efficace come una lezione dal vivo. Poi influisce molto anche il fattore motivazionale: per coloro che hanno un obiettivo ed interesse ad imparare, nonostante le difficoltà si impegnano e si sforzano molto di più rispetto ad altri, dando tantissima soddisfazione.

Non è da dare per scontato il contesto.

Penso che il solo fatto di recarsi in un luogo, sapendo che lo si sta facendo perché per un’ora si farà la lezione di italiano, pone un atteggiamento più focalizzato ed attento. Alla fine dei conti con una video lezione si entra virtualmente nella casa di qualcun altro e nella sua sfera privata. Tutto ciò penso che pone la relazione in un ambito diverso rispetto da quando si è in un’aula. Inoltre vi è il problema di terze persone che interrompono o addirittura intervengono durante la lezione, per non parlare di rumori e schiamazzi esterni. Tra le altre cose, purtroppo non tutti riescono ad avere i mezzi idonei per poter usufruire di una buona connessione internet, di un computer o un cellulare che risultino funzionali alla lezione. In effetti, una difficoltà non da poco sono i problemi di connessione internet che portano a continue interruzioni e si perde gran parte del tempo più a ricollegarsi oppure a ripetere “Ci sei? Ora mi senti? Ora ci sei?”.

Alla lunga diventa sfiancante sia per me che per la persona che sto aiutando, oltre a portare ad un inevitabile calo dell’attenzione.

È una situazione che crea disagi e fa sì che si percepisca ancor più la distanza.

Facendo lezioni in videochiamata, si avverte molto la mancanza del contatto umano, il vedere l’altro e riuscire a capire se sta realmente comprendendo o se sia il caso di intervenire con parole differenti e più efficaci.

Avere uno schermo davanti rende il rapporto tutto più sterile. Mi mancano il contatto fisico ed i sorrisi a fine della lezione che ti danno un feedback umano, un calore, un comunicare nonostante la difficoltà della lingua.

Malgrado le problematiche date dalla distanza, mi è capitato che alla fine della lezione mi ringraziassero per quell’ora dedicata a loro.

Probabilmente l’essere vicini anche se distanti ed il fare anche nel nostro piccolo, permette alle persone di non sentirsi abbandonate ed avere un po’ di normalità anche in questo momento particolare.

Questa è la testimonianza di una volontaria, ma ascoltandola è possibile rendersi conto che è un problema che accomuna noi educatori ma anche per esempio gli insegnanti e altre figure ancora, che nel loro lavoro hanno il compito di educare.

Avete consigli, strumenti o altri metodi che voi utilizzate nel vostro lavoro?

Se avete piacere di condividerli con noi, saremo felici di portare la vostra esperienza.
E chissà, magari sarà di aiuto per qualcun altro!

Quella vocina che spesso ci frega

15 Maggio 2020

Luigi Luvinetti
Coach in Programmazione NeuroLinguistica

Tutti noi abbiamo una voce che ci parla nella testa, è la voce dei nostri pensieri.
È una sorta di dialogo interno che ci accompagna per tutta la giornata.
Potremmo definirlo come la somma delle domande che ci facciamo e delle risposte che ci diamo.

Fin qui tutto normale, stai tranquillo, non sei pazzo se parli tra te e te. O almeno, se così fosse lo saremmo tutti e…di conseguenza non lo sarebbe nessuno.

Quando dico che la voce dei nostri pensieri ci accompagna durate tutta la giornata sono serio e, più di quello che potresti pensare. Quello che ti dici ha delle implicazioni importanti sulle scelte che attui e sui comportamenti che metti in campo. E sia che si tratti di un campo da gioco o che il gioco si svolga nel campo più grande (quello della vita), credo che sia importante comprendere come giocare al meglio delle nostre possibilità.

Riesci ad immaginare cosa succederebbe se ad ogni tentativo di fare qualcosa di nuovo o di approcciarti a una persona che ti interessa conoscere quella voce ti dicesse frasi come: “non ce la puoi fare!”, “lascia stare!”, “non fa per te!” o, ancora peggio, “non sei portato per queste cose!”? Se ci pensi bene, è un po’ come essere in due sulla stessa barca ma quello più allenato dei due ti rema contro. Dove pensi che vada la barca?

Ho conosciuto questo fenomeno con il nome di self-talk, (o dialogo interno), quando studiavo all’università, durante il corso di Psicologia dello Sport. Nonostante la materia mi affascinasse parecchio, ero ancora molto lontano dal comprendere le implicazioni che tutto questo poteva avere nella performance sportiva di un atleta e, ancora di più, nella performance di quel gioco più grande che si chiama vita.

Oggi con qualche anno di studio ed esperienza sul campo in più, posso dire di aver compreso meglio gli insegnamenti di quel corso che mi ha aperto le porte sul mondo del coaching.

Ed è proprio grazie a quello che faccio che ho la possibilità di incontrare tante persone e ognuna di esse, a modo suo mi fa crescere e mi aiuta a diventare un Coach migliore, condividendo con me le proprie esperienze di vita.

Imparare a gestire un dialogo interiore, in modo che diventi più funzionale, è uno strumento fondamentale per andare nella direzione dei nostri obiettivi.

Spesso e volentieri neanche sappiamo che la gestione di quella voce ce l’abbiamo noi. Noi abbiamo il telecomando con il quale decidere se abbassare il volume di quella voce, fino a farla sparire o ad aumentare il volume fino a farla diventare un tifo da stadio.

Il punto è che se queste cose nessuno ce le dice sarò difficile farci caso e se non siamo consapevole di qualcosa, non possiamo lavorarci sopra. Spesso, sono proprio questi processi mentali che ci permettono o meno di esprimere le nostre potenzialità.

Cosa succederebbe se riducessimo il volume di quella voce che ci tiene fermi ai blocchi di partenza e, invece, alzassimo il volume di quella che ci incita a correre al massimo verso i nostri traguardi?

La comunicazione, quella più importante, è quella con noi stessi. Il resto è un riflesso.

Luigi Luvinetti
coach in Programmazione NeuroLinguistica

Educatori? Presenti.

di Cristina Sant e Federica Giugno

– Una riflessione libera sul ruolo, le percezioni e le emozioni degli educatori durante il coronavirus –

Tutti noi siamo molto riconoscenti e grati per il meraviglioso lavoro che stanno svolgendo i nostri medici, gli operatori sociosanitari, la protezione civile, i cassieri dei supermercati, le forze dell’ordine e tutte le figure operanti durante questa emergenza del COVID-19.

È senza dubbio un periodo complesso e difficile su molti fronti. La crisi economica e lavorativa ha messo a rischio liberi professionisti e lavoratori dipendenti colpendo di conseguenza molte famiglie italiane.

All’interno di tutto questo marasma c’è una figura che si sta muovendo nell’ombra ma si trova pur sempre in prima linea, una figura che non è mai stata nominata ma che sta svolgendo un lavoro fondamentale: L’EDUCATORE PROFESSIONALE.

Questa figura un po’ misteriosa e spesso incompresa, il suo ruolo e i suoi compiti ancora non sono ben chiari a molte persone.

In questo particolare momento storico non voglio definire questa figura come un “super-eroe”. La sua è una missione che viene dal cuore, il più delle volte l’educatore non sceglie di esercitare questa professione ma è semplicemente il percorso naturale della sua esistenza.

L’educatore è quella figura professionale, sanitaria o pedagogica, che opera all’interno di strutture residenziali e diurne rivolte a persone diversamente abili, anziani e minori, lavora all’interno delle scuole, a casa delle famiglie, per le strade…

L’educatore promuove il sostegno e lo sviluppo del benessere psico-fisico della persona fragile, progetta e attua interventi per garantire un’alta qualità di vita della persona tenendo ben presente tutte le caratteristiche di ogni singolo individuo.

Con l’arrivo del COVID-19, l’educatore che opera all’interno delle strutture sta passando un periodo di “messa alla prova”.

Di punto in bianco sono state chiuse le porte dei centri residenziali, nessun signore/a può uscire e nessuno può entrare. Inizia così un duro percorso per gli ospiti delle strutture, ma anche per tutte quelle famiglie che si ritrovano private di andare a far visita al loro caro.

L’educatore deve far fronte a due aspetti:

1. spiegare all’ospite la motivazione per cui non può più uscire né ricevere visite dalla sua famiglia (aspetto non sempre compreso se ci troviamo di fronte a una persona con limitazioni).

2. fare forza e coraggio a tutte quelle madri, sorelle, zie, ai padri, cognate e cognati che telefonano piangendo perché non possono abbracciare il loro caro. E credetemi…questo spezza il cuore.

Queste famiglie fanno il possibile per poter stare vicino al loro parente attraverso una videochiamata, a dei regali inviati tramite il corriere, delle lettere scritte, delle mail ricevute. Si sente così nell’aria un amore ancora più forte di prima e questo viene ben percepito dai nostri ospiti!

In ogni struttura sono state adibite delle stanze di isolamento nel caso in cui il virus arrivasse a colpire gli ospiti.

Ecco qui che inizia la trasformazione dell’educatore: guanti, mascherina (DPI già in uso), tute verdi o bianche, caschi con visiera, occhiali protettivi, cuffia e copriscarpe. Adesso assomigliano più a degli astronauti che a degli educatori.

Immaginate voi la paura che hanno creato negli ospiti nel vederli così “conciati” e senza che tutti capissero pienamente il motivo.

Anche l’educatore che si reca dalle famiglie si ritrova ad affrontare diverse difficoltà. L’intervento via webcam è molto complicato sia per gli educatori che per i genitori e i loro bambini.

La comunicazione va a perdersi perché i bambini, soprattutto i più piccoli, non capiscono pienamente la necessità di un intervento via Skype, fanno molta fatica e lo vedono come un dovere più che come un’attività rilassante e piacevole come è di consueto l’intervento educativo domiciliare.

I genitori si sentono abbandonati dal sistema, ora troppo impegnato ad affrontare temi più “urgenti”, ma l’educatore è sempre lì al loro fianco, anche se non è più in servizio, se non viene più retribuito, trova sempre un momento per telefonare alle sue amate famiglie per dar loro un po’ di conforto e supporto.

Queste figure professionali hanno asciugato tante lacrime reprimendo le loro per non trasmettere la loro paura, il loro dolore; devono essere forti per i ragazzi e le loro famiglie. Loro dicono “andrà tutto bene” e lo credono per davvero!

Noi educatori viviamo di abbracci infiniti, di tocchi, di carezze sul viso, di baci affettuosi. Questa è la nostra essenza.

Il contatto fisico è per noi fondamentale: prendere in braccio un bambino, dirigergli fisicamente la mano in modo che apprenda una nuova azione, accarezzare il viso di una persona allettata e vedere che ti sorride… queste sono solo alcune manifestazioni con cui noi operiamo.

Il decreto di mantenere le distanze sociali e la limitazione dei contatti fisici è stato un duro boccone da mandar giù.

Come far capire ai nostri ragazzi che non ci potevano più abbracciare al nostro arrivo? Abbiamo utilizzato metodi alternativi ma ovviamente non saranno mai la stessa cosa!

Il COVID-19 ci ha tolto tanto ma la cosa più bella è che anche se indossiamo la mascherina si vede che sorridiamo!

#PILLOLEdiITALIANO al via!

i primi passi del progetto a favore dei percorsi formativi per minori stranieri

L’emergenza sanitaria attuale colpisce le fasce più vulnerabili della popolazione, tra cui i migranti, i quali attualmente sono accolti, in alcuni casi, presso affollati centri di accoglienza o di detenzione amministrativa, con le problematiche a ciò connesse. La situazione emergenziale ha dimostrato come sia necessario ripensare all’accoglienza in termini di “accoglienza diffusa”, un approccio oggi ancor più significativo per far fronte all’emergenza sanitaria ed evitare il persistere di situazioni di assembramento o sovraffollamento delle strutture ricettive. 

La tematica che in questo contesto interessa maggiormente l’associazione Liberi Educatori è l’interruzione di ogni tipo di percorso formativo, dal basilare studio della lingua italiana ai più importanti percorsi professionalizzanti in cui erano coinvolti principalmente i minori stranieri non accompagnati (MSNA). Ciò che spaventa è in particolar modo l’incertezza che avvolge la quotidianità dei minori. Già precedentemente all’avvento del COVID-19 l’incertezza e il rischio marginalità tendevano ad enfatizzarsi in relazione allo scenario sociopolitico in evoluzione.

In conseguenza a tale scenario l’associazione Liberi Educatori, in collaborazione con le principali comunità di accoglienza per MSNA del territorio friulano, ha sviluppato una riflessione sul tema dell’inclusione sociale dei minori stranieri e delle possibili azioni in tal senso.

Da qui nasce la nostra idea: quali azioni possiamo attivare per diminuire la “distanza tra NOI E LORO”?  Come possiamo offrire speranza ai minori stranieri, riducendo il senso di incertezza e potenziando le capacità di inclusione? Ed, in particolare per i MSNA impossibilitati a ricevere una formazione adeguata in questo momento: quali attività educative o didattiche possono essere attivate in loro favore?

Grazie alla collaborazione della comunità alloggio Carpe Diem, di Aedis Onlus, è stato avviato un percorso di attività formative ed educative finalizzato al potenziamento linguistico, all’educazione civica ed alla capacitazione lavorativa.

La prima fase del progetto mira a coinvolgere i MSNA delle comunità di accoglienza nella creazione di 4 video brevi, di massimo 3/4 minuti che diventino appuntamenti programmati in cui vengano presentate piccole scene di vita quotidiana recitate direttamente dai minori.

Ai fini della privacy e della tutela dell’immagine del minore straniero, al video verrà applicato successivamente il filtro “cartone animato” al fine di non rendere riconoscibili i volti e le identità dei soggetti coinvolti.

Cogliamo l’occasione per ringraziare la comunità alloggio Carpe Diem e
Aedis Onlus per la collaborazione e l’intraprendenza.

Sono numerose le comunità di accoglienza sul territorio friulano: Liberi Educatori si impegnerà a sviluppare ed a espandere la proposta progettuale.

#costruireilnuovo
#minoristranieri
#comunità

Aedis Onlus – Aedis Onlus

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Comunità Alloggio Carpe Diem

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